Lo si aspettava da più d'un mese ed alla fine l'annuncio è arrivato, nello scenario più solenne, quello dell'Assemblea Costituente del Partito Democratico. Anna Finocchiaro si candida alla Presidenza della Regione Sicilia ed una sentita standing ovation ne saluta l'annuncio: "Io vengo da una terra soffocata dalla mafia dove il centrodestra ha preso il 68%...Nella mia isola c'è il mito della madre e per quanto sembri maschia la mia Sicilia è giusto che proprio una donna se ne prenda cura".
Il discorso di Romano Prodi
Care democratiche e cari democratici
“la pazienza, ecco un rimprovero che sovente ci rivolgono nel nostro lavoro politico, come se la pazienza significasse mancanza di volontà……. come se la pazienza non fosse la virtù più necessaria al metodo democratico.
Questa frase non è mia. È di Alcide De Gasperi, del 20 novembre 1948. Sessant’anni fa. Essa mi sembra ancora adatta per oggi, anche se la frenesia della campagna elettorale non si concilia facilmente con il concetto di pazienza.
Credo invece che questo sia l’approccio giusto con il quale aprire questa nostra importante assemblea. Un approccio che dovremo conservare quando, dopo le elezioni, potremo tornare alla guida del Paese. Una pazienza che abbiamo esercitato nel perseguire il nostro obiettivo fin dal 1995. Una pazienza messa alla prova in due esperienze di governo. Essa fa parte, intrinsecamente, del progetto e dell’idea che ci hanno unito, che ci hanno portato fin qui. Il progetto di una grande forza di centrosinistra.
Una forza che fa appello alla maggioranza del nostro Paese.
Una forza che affronta con serietà, con uno spirito nuovo e con idee nuove i problemi dell’Italia: il Partito Democratico.
Il contributo di innovazione del Partito democratico nella politica italiana è enorme: dalle primarie fino alla costruzione dal basso di un vero partito, abbiamo introdotto una ventata di freschezza e di novità che in Italia non si era mai vista.
Oggi sono qui di fianco a Walter e a tutti voi per rispondere alle domande che la difficile realtà internazionale e la crisi del nostro sistema politico ci pongono.
Abbiamo lavorato in questi anni per mettere insieme culture politiche che affondano le loro radici in una storia diversa ma che fanno riferimento ad un terreno comune: quello del riformismo. Il nostro è un riformismo che affonda le proprie radici nella pace e nell’Europa. Un’Europa unita che non si esaurisce certo nel rispetto dei parametri di Maastricht.
Essere europei significa infatti lavorare per una democrazia matura, una democrazia dell’alternanza. Una democrazia in cui autorità non significa autoritarismo, ma capacità e potere di prendere le necessarie decisioni.
Una democrazia in cui le nuove generazioni si possano riconoscere nelle maestà della legge come nell’esempio dei genitori, degli insegnanti e dei politici che ci rappresentano.
Una democrazia che trova la propria forza soprattutto nell’interpretare il nuovo e nel costruire il futuro.
Questa democrazia e questo riformismo ci orientano e ci guidano anche nelle scelte economiche, che oggi debbono fare fronte alle sfide della globalizzazione e di una nuova concorrenza.
Queste sono sfide che si vincono solo col cambiamento che, nella società italiana significa rompere le incrostazioni e i privilegi che da tempo ne hanno impedito progresso, sviluppo ed equità.
Il nostro riformismo si fonda perciò sulla ricerca del nuovo e sulla promozione del cambiamento, per riprendere con vigore la via della crescita economica e sociale del Paese.
Noi tutti abbiamo il dovere di non voltarci indietro di fronte alle nuove sfide nazionali e internazionali.Un dovere che chiama in gioco la politica, le istituzioni, le comunità locali e i singoli cittadini.
Il nostro riformismo deve essere quindi proiettato verso il futuro, ma non può non fondarsi sulle grandi virtù della libertà, della tolleranza, del dialogo e del confronto, virtù che rappresentano i punti più alti della nostra storia e della nostra memoria.
E queste virtù debbono guidare tutti i comportamenti individuali e collettivi della nostra società a partire dal delicato rapporto fra cattolici e laici.
Chi, come me, si è formato nel clima del Concilio Vaticano II, dava per superata, per quasi risolta la questione della laicità.
Vedo invece riemergere il conflitto sulla laicità con forza, quasi con violenza.
È importante interrogarsi sul perché, senza schematismi o strumentalizzazioni.
E soprattutto è necessario rivisitare in profondità il rapporto tra una costruzione statale ormai secolarizzata e l’emergere di nuovi fenomeni religiosi.
Non ci sono solo gli integralismi, vi sono anche nuove autentiche domande e inedite sfide etiche che meritano nuove risposte.
In Italia troppo spesso crediamo di essere di fronte a un problema non componibile. Ad uno scontro inevitabile.
Noi non siamo all’inizio della storia: ancora di recente il tema è stato affrontato positivamente, anche a livello europeo.
Il Trattato di Lisbona ha riconfermato integralmente il precedente articolo 52 del Trattato Costituzionale europeo: uno dei testi più avanzati in tema di dialogo aperto, trasparente e regolare tra le comunità religiose, gli Stati e l’Unione.
In esso l’Europa riconosce per la prima volta l’identità e il contributo specifico delle chiese e delle comunità religiose.
Ho lavorato molto, insieme a Giuliano Amato, perché quell’articolo fosse scritto e approvato. L’ho voluto perché ero e sono convinto della necessità di riconoscere uno spazio pubblico alla dimensione religiosa.
Perché ero e sono convinto che la laicità sia un luogo di comunicazione positivo tra diverse tradizioni spirituali e la Nazione.
Perché ero e sono convinto che il rapporto tra lo Stato e le comunità religiose debba essere improntato al dialogo e non a una neutralità negativa o alla reciproca indifferenza.
Questa è la mia laicità.
Allora mi chiedo perché, da più parti, in questi anni si è generato e si continua ad alimentare un clima di scontro tra laici e cattolici, evocando fantasmi del passato, quando la nostra strada, il nostro futuro è quello di essere necessariamente e positivamente assieme. Non ho risposta. So solo che ormai da alcuni anni si procede nella direzione sbagliata.
Assisto infatti, con tanta preoccupazione, al moltiplicarsi di atteggiamenti negativi, che occupano entrambi gli schieramenti politici.
Da una parte si fa strada la strategia dell’elogio e dell’ossequio acritico e formale alle autorità religiose.
Dall’altra vedo la volontà di non affrontare i problemi che dividono la nostra società, solo per non pagarne il costo politico.
Né l’una né l’altra scelta consentono una convivenza matura tra laici e cattolici.
Anzi, sia l’una che l’altra contengono di fatto la volontà di rendere irrilevante il contributo di una ispirazione religiosa, del quale contributo anche lo sviluppo della laicità ha bisogno. Unità, laicità, modernità. Da questi concetti siamo partiti per disegnare l’Italia che vogliamo.
Oggi, questo disegno è ancora abbozzato, troppo lontano dal quadro originale che avevamo in mente. Ci troviamo ancora a combattere con uno scarso dinamismo della nostra società. Una società dove, colpevolmente, manca ancora una seria cultura che premi le capacità, dove il corporativismo è sempre presente, dove pochi vogliono rischiare.
Non dimentichiamo però che le nostre potenzialità sono enormi: noi rappresentiamo una delle principali forze dell’occidente.
Non ci aspetta un ineluttabile destino di declino, come molti hanno sciaguratamente scritto.
I nostri prodotti sono presenti su tutti i mercati del mondo e, anzi, in questo ultimo anno, questa presenza è aumentata in maniera significativa.
Noi dobbiamo saper mettere a punto le nostre potenzialità. E lo possiamo fare grazie alle straordinarie risorse che l’Italia ci offre: eccellenze in campo produttivo, tecnologico, artistico, ambientale, culturale.
E soprattutto risorse umane, donne, uomini, giovani a cui dobbiamo solo fornire gli strumenti per costruire un’Italia migliore e più moderna.
Già due volte gli italiani hanno scelto di affidarsi a noi per affrontare e vincere queste sfide.
Abbiamo vinto le elezioni nel 1996 e, di nuovo, dieci anni dopo, abbiamo vinto nel 2006.
In entrambe le occasioni non abbiamo sconfitto solo lo schieramento e il candidato che si opponeva a noi.
Abbiamo sconfitto un modo inaccettabile di intendere la politica, di intendere il rapporto tra governanti e cittadini, tra democrazia e informazione.
Abbiamo combattuto e sconfitto una politica di isolamento in Europa, una linea di politica estera che era ed è lontana dal nostro concetto di pace.
Per questo motivo siamo tornati a casa dall’IRAQ.
Per due volte abbiamo vinto.
Ma questo non è bastato a risolvere i nostri problemi.
Oggi, però, sono più sereno di qualche anno fa.
Lo sono perché, oltre alla forza del progetto, abbiamo l’energia che ci viene dall’aver costruito un soggetto politico.
Il Partito Democratico. E se oggi siamo qui tutti uniti molto dobbiamo al contributo e alla generosità di Piero Fassino e Francesco Rutelli.
Noi, del Partito Democratico, siamo una forza che ha l’ambizione e le carte in regola per governare bene questo Paese.
La responsabilità di governare noi democratici (ed io in particolare) l’abbiamo assunta tutta, fino in fondo, fino alla fine.
Credo però che l’importanza della funzione di governo e la grandezza della responsabilità che esso comporta sia oggi presente più nella società, tra i cittadini, che nel comportamento di una parte della classe politica. Noi abbiamo perciò il dovere di raccogliere questa domanda di governo e questa consapevolezza della nostra società.
Bisogna tornare al significato vero della parola “politica”; che significa “agire per cambiare le cose”.
È un’idea che Walter ed io abbiamo portato avanti fin dai tempi del pullman e che è proseguita fino alle primarie: quelle del 2005 e quelle del 2007. E voi tutti, qui, ne siete testimoni. Proprio per questa convinzione credo che il Partito Democratico sia l’evoluzione dello spirito originario dell’Ulivo.
Se traccio un bilancio di questi ultimi due anni di governo, vedo benissimo le difficoltà e le contraddizioni di fronte alle quali ci siamo trovati, gli interessi costituiti che si sono opposti alla nostra azione.
Gli interessi di quelle imprese e di quelle categorie che vogliono operare al riparo della concorrenza, di quella finanza che pretende di farsi guida e sostituirsi all’economia reale.
Gli interessi di chi pensa che il cambiamento e i sacrifici siano utili, solo se ad affrontarli sono gli altri.
E abbiamo anche dovuto affrontare la difficoltà di rompere la barriera tra chi è dentro i sistemi di tutela e chi ne è fuori.
Abbiamo combattuto contro una cultura che legittima e incoraggia l’evasione fiscale.
Abbiamo infine combattuto quegli interessi clientelari e mafiosi che imprigionano e negano il futuro del nostro Mezzogiorno.
Tutti questi interessi traggono forza dalla debolezza del sistema politico. E’ la nostra debolezza che li fa diventare “poteri forti”.
In questi anni, attaccando il governo di centrosinistra è stata attaccata soprattutto l’idea di cambiamento.
Un cambiamento che, dobbiamo ammetterlo, non siamo stati in grado di esprimere compiutamente, per le difficoltà e gli ostacoli che tutti conosciamo.
A causa, in primo luogo, dell’orribile legge elettorale imposta dal centrodestra alla vigilia delle elezioni del 2006 per colpire l’Unione e impedirci di vincere con ampia maggioranza.
Mi sento quindi di rivendicare con forza l’azione del nostro governo.
Ci siamo sempre mossi in coerenza con il nostro progetto.
Abbiamo portato avanti una precisa linea politica.
Insieme al necessario e indispensabile risanamento abbiamo fatto crescere il Paese.
Sul piano internazionale, dal Libano al Kossovo, all’Afghanistan, abbiamo assunto tutte le responsabilità che competono a un grande paese come l’Italia. Ai nostri soldati che per questo hanno dato la vita rivolgo un omaggio commosso.
Con la crescita, abbiamo iniziato a ridurre le disuguaglianze e le disparità che nei precedenti cinque anni si erano accentuate in modo intollerabile.
E’ motivo di profondo orgoglio essere riusciti, nel momento stesso in cui risanavamo i conti dello Stato, a redistribuire un punto percentuale di Pil (15 miliardi di Euro) alle fasce più deboli della società. Una redistribuzione resa possibile da quei successi nella lotta all’evasione fiscale e nella diminuzione della spesa pubblica, che ci vengono oggi finalmente riconosciuti da tutti, a partire dall’Unione Europea.
Quando parlo di redistribuzione, mi riferisco all’aumento delle pensioni basse, all’assegno per i più poveri e, ancora, agli interventi sulla casa, con gli sgravi per l’Ici e per gli affitti.
E certo si inseriscono nel solco di questa missione di sostegno alla crescita, gli sgravi alle imprese per ridurne i costi e aumentarne la capacità di innovare e di creare occupazione.
E l’aumento della nostra dotazione di infrastrutture, alimentate da risorse reali e non inventate.
E, ancora, l’intervento serio sui costi della politica con il taglio di spese e privilegi.
E la vera lotta alla precarietà, portata avanti favorendo una flessibilità positiva, con vantaggi per chi assume lavoratori con contratti a tempo indeterminato.
E, infine, i provvedimenti per la sicurezza sul lavoro e per l’emersione del lavoro nero (190.000 lavoratori edili emersi dalla schiavitù del lavoro nero).
Non spetta certo a me dare dei voti su quanto abbiamo fatto.
Tuttavia in serena coscienza posso dire che nelle condizione date, siamo stati bravi. Forse, molto bravi.
Certo siamo rimasti sotto il livello delle aspettative che il Paese aveva verso di noi.
Questo perché il nostro progetto era un progetto di legislatura e il nostro percorso è stato interrotto ad un terzo del cammino.
Con queste nuove elezioni siamo chiamati a riprenderlo con vigore e a rilanciarlo in forme nuove.
Da parte mia ho già annunciato che non mi ricandiderò al Parlamento. Lo faccio perché ritengo di avere compiutamente svolto il compito che mi ero proposto. Lo faccio perché anche voi in piena libertà possiate svolgere il vostro compito. Lo faccio perché la buona politica esige il rinnovamento. Il rinnovamento delle persone e delle generazioni.
Ma nel nostro Partito Democratico io ci sarò ancora. Sarò ancora con voi, sarò ancora insieme a voi.
Care democratiche, Cari democratici,
Abbiamo pagato in questi anni la frammentazione e l’immaturità di quella che Arturo Parisi chiama “democrazia governante”.
Ma la lezione di questi ultimi anni è che, per riformare il sistema politico, non ci si può affidare alla sola ingegneria istituzionale.
La soluzione può venire soltanto dalla politica.
E’ per questo che, vissuta l’esperienza di questa legislatura, abbiamo scelto di costruire un soggetto forte e unito: il Partito Democratico.
Un Partito Democratico per superare le divisioni che hanno lacerato l’Italia.
Un Partito Democratico per unire e guidare i riformisti italiani.
Un Partito Democratico che è il compimento del progetto che Walter ed io lanciammo con l’Ulivo.Per tutto questo, insieme a tutti voi, anch’io oggi vi dico che
L’Italia che vogliamo (caro Walter) si può fare.
Il discorso di Walter Veltroni
“Papà era in Afghanistan per portare la pace e non è la prima volta che andava all’estero: tutti i giorni ci mandava le foto di quello che faceva con i bambini nelle scuole che ricostruivano. Aveva scelto di far parte di un reparto dell’Esercito che si occupa di ricostruire, ed era orgoglioso di quello che faceva. Credeva fino in fondo al suo lavoro, mettendo al servizio dello Stato e della patria la sua vita”.
Sono le parole con le quali una ragazza di diciotto anni ha ricordato suo padre.
Giovanni Pezzulo aveva 45 anni. Insieme ad alcuni colleghi, stava distribuendo viveri e medicinali alla popolazione, non lontano da Kabul. Gli hanno sparato a tradimento, lo hanno colpito a morte e probabilmente hanno esultato, i guerriglieri talebani che hanno ferito, per fortuna in modo lieve, anche un altro giovane militare italiano, Enrico Mercuri, di 31 anni.
A lui vanno i nostri auguri di rapida guarigione. Alla moglie e a Giusy, la figlia di Giovanni, il commosso, riconoscente abbraccio di noi tutti.
Giovanni Pezzulo ha onorato la bandiera italiana, sotto la quale serviva, su mandato Onu, le popolazioni civili dell’Afghanistan. Non era lì per fare la guerra. Era lì per contribuire a un’impresa difficile, ma necessaria: pacificare, stabilizzare, democratizzare un paese che era diventato – e non deve tornare ad essere – un santuario del terrorismo fondamentalista internazionale.
A Giovanni, agli altri nostri caduti in Afghanistan in questi anni, a tutte le donne e gli uomini impegnati nelle nostre missioni militari di pace, va la gratitudine di ogni italiano.
La strada verso la pace è lunga e impervia, lo sappiamo bene. Con Romano Prodi, Massimo D’Alema, Arturo Parisi, in questi anni abbiamo lavorato in Europa, nella Nato e all’Onu, per un salto di qualità nella conduzione politica della questione afgana. Continueremo a farlo. E’ ancora più necessario e urgente, con l’aggravarsi della crisi del Pakistan.
Ma lavorare per una soluzione politica non significa ritirare unilateralmente la nostra presenza militare.
E’ quanto ha chiesto in Parlamento, proprio in questi giorni, la Sinistra Arcobaleno, che ha votato contro il decreto di rinnovo di tutte le nostre missioni militari internazionali.
Noi consideriamo quel voto un grave errore. In via di fatto, perché non si vede come il ritiro unilaterale dell’Italia possa aiutare una svolta politica della questione afgana. E in via di principio, perché il ripudio della guerra, solennemente affermato dalla nostra Carta Costituzionale, non ha nulla a che vedere con un’opzione neutralista o isolazionista.
L’Italia non può restare indifferente rispetto alla qualità dell’ordine mondiale. L’Italia deve intervenire attivamente nel contesto internazionale. Con un vincolo preciso: la pace può essere perseguita solo attraverso il rafforzamento del multilateralismo e non imboccando la scorciatoia senza uscita delle politiche e degli interventi unilaterali.
Per questa ragione siamo venuti via dall’Iraq: perché quella missione era nata all’insegna dell’ambiguità su questo decisivo discrimine politico e di principio.
Per questa stessa ragione, abbiamo invece confermato e confermiamo i nostri impegni in Afghanistan, in Libano e nei Balcani, che non solo hanno una ineccepibile legittimazione internazionale, ma sono espressione di quel multilateralismo efficace che è la sola via per la gestione dei conflitti nel mondo nuovo che sta sorgendo attorno a noi.
Un mondo più grande, segnato dall’affacciarsi di miliardi di donne e di uomini a lungo esclusi dallo sviluppo mondiale. La Cina e l’India, il Brasile e la nuova Russia, rinata dalle ceneri dell’Unione Sovietica, insieme al vasto mondo arabo-islamico, stanno mutando in modo radicale la natura stessa della globalizzazione.
Solo pochi anni fa, si pensava alla globalizzazione come alla possibile forzata occidentalizzazione del mondo. Invece il mondo, sempre più, sta diventando multipolare: con le sue straordinarie opportunità di umanizzazione e con gli altrettanto enormi rischi per la stabilità finanziaria e la giustizia sociale, per l’equilibrio ambientale e per la pace.
L’ampliarsi degli orizzonti del mondo rende ancora più attuali le quattro direttrici storiche della nostra politica estera. E rende ancora più evidente e necessario il principio che è la forza di ogni Paese: la priorità assoluta sono gli interessi nazionali, non quelli di parte.
Si potrà e si dovrà, se necessario, dissentire tra maggioranza e opposizione su questa o quella scelta concreta. E’ avvenuto in passato e altrove, è possibile che continui a succedere. Ma un grande Paese, una grande democrazia come noi vogliamo essere, non è tale senza una visione condivisa della collocazione dell’Italia nel mondo e del nostro, comune interesse nazionale.
Il primo pilastro della nostra politica estera è, continua ad essere, la partecipazione attiva dell’Italia al processo di integrazione politica dell’Europa: l’Europa massima possibile, non quella minima indispensabile, l’Europa come risposta a chi crede che la globalizzazione sia ingovernabile.
Noi facciamo nostro e chiediamo alle altre forze politiche di fare altrettanto, l’appello del Presidente Napolitano, al quale rivolgiamo da qui il nostro saluto più affettuoso, per una sollecita ratifica parlamentare del trattato di Lisbona.
Nella prossima legislatura, le nostre priorità in campo europeo saranno una solida politica di sicurezza comune, una politica dell’energia coerente con la strategia dell’abbattimento delle emissioni e dello sviluppo delle fonti rinnovabili, una rappresentanza unitaria sui mercati esterni, una politica della ricerca e delle reti europee da finanziarsi anche mediante l’emissione di euro-bond.
Il secondo pilastro della nostra politica estera è il Mediterraneo, che dopo secoli di marginalità ha oggi davanti a sé la straordinaria opportunità di proporsi come l’hub politico ed economico mondiale di questo secolo. Un hub che collega Europa e Nord Africa, Caspio e area del Golfo, a sua volta porta per l’Asia. Un hub per le merci e per l’energia, per le migrazioni e il dialogo religioso.
Essere parte e perno di un forte circuito “euro-mediterraneo” è per l’Italia la condizione principale per il rilancio del Mezzogiorno, per rovesciare finalmente la prospettiva e fare del nostro Sud non più il principale problema ma la più importante risorsa sottoutilizzata del Paese.
Il terzo pilastro è il rafforzamento dell’amicizia e della collaborazione, nazionale ed europea, con gli Stati Uniti. Amicizia e collaborazione fondate ovviamente sull’autonomia, e non sulla dipendenza. Sul legame che la storia ci ha consegnato, e sui compiti che il presente ci assegna.
Concorrere alla costruzione di uno spazio comune transatlantico è fondamentale nel campo tradizionale della politica estera e di difesa. Ed è decisivo in campo economico, dove serve una cooperazione che rafforzi il governo della globalizzazione e della liberalizzazione dei mercati, e diminuisca il rischio di crescenti protezionismi.
Europa e Stati Uniti assieme rendono tutto più facile e possibile. La partnership atlantica è la base migliore per un nuovo dialogo con il mondo arabo e islamico. E’ un’opportunità per il governo delle crisi, a cominciare da quella israelo-palestinese. E’ la chiave per la piena integrazione dei Balcani occidentali nel sistema europeo, e per un approccio positivo nei confronti delle nuove potenze emergenti e dei rischi della proliferazione nucleare e del riarmo.
Il quarto pilastro di una politica estera che auspichiamo condivisa dal più ampio arco di forze parlamentari è il multilateralismo, e in particolare il sostegno alle Nazioni Unite, al loro imprescindibile ruolo, alla loro necessaria autoriforma.
Dopo il successo dell’iniziativa sulla moratoria delle esecuzioni capitali, l’Italia deve continuare a battersi per la tutela dei diritti umani e per l’affermazione e il rispetto della legalità internazionale, tramite la Corte di Giustizia e il Tribunale Penale Internazionale.
E io continuo a credere che faremmo un torto alla nostra civiltà, oltre che al futuro stesso dell’umanità, se non assumessimo in modo più stringente e vincolante la lotta alla povertà e alla fame e il raggiungimento degli altri Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
Non è più solo una questione di quantità dell’impegno, di risorse da destinare agli aiuti allo sviluppo, anche se fa male constatare che l’Italia, pur invertendo al tendenza degli anni precedenti, è ferma allo 0,20 per cento del Pil, e che solo Grecia e Stati Uniti fanno meno di noi. E’ anche una questione di qualità e di efficacia, di come gli aiuti vengono impiegati. Anche per questo nella prossima legislatura dovremo provvedere una sollecita approvazione della legge di riforma della cooperazione.
Lo dobbiamo anche a quei milioni di italiani – volontari, missionari, associazioni, Ong – che si spendono per dare speranza e sostegno all’Africa, per migliorare le condizioni di vita nei paesi in via di sviluppo.
Sono il ritratto migliore dell’Italia. Sono l’esempio delle energie che abbiamo, del tesoro umano di cui disponiamo. Dobbiamo averne cura, sostenerlo, farlo crescere. Non lasciamo che questa ricchezza venga mortificata, fino ad esaurirsi pian piano.
L'Italia deve muoversi, deve fare appello alle grandi risorse intellettuali e morali di cui dispone, se vuole giocare da protagonista nel mondo che cambia.
L'Italia deve lasciarsi alle spalle il passato, e scegliere il nuovo.
Deve smettere di accontentarsi, e volere di più: più mobilità sociale, più spazio al merito e ai talenti e meno chiusure corporative; più legalità e meno furbizia; più ricerca, scienza, innovazione tecnologica e meno divisioni e steccati ideologici; più fiducia nel futuro e in se stessi, e meno paura del nuovo; più potere di decisione alla democrazia, e meno poteri di veto.
Si può fare. Le risorse per riuscire ci sono. Sta già succedendo. In Italia due-tremila imprese di media dimensione, ciascuna delle quali è al centro di una costellazione di decine, talvolta centinaia di imprese più piccole, si sono ristrutturate, hanno tirato la cinghia, hanno sofferto, si sono internazionalizzate; e ora si sono riproposte da leader nell'economia globale.
E’ merito loro se nel 2007 le nostre esportazioni, in valore, sono tornate finalmente a crescere. Quando si dice “imprese”, si dice lavoratori e imprenditori, insieme.
In Italia, migliaia di giovani calabresi hanno sfidato la mafia: "ora uccideteci tutti" hanno gridato ai boss della criminalità organizzata.
In Italia, in Sicilia, ci sono imprenditori, ci sono industriali, commercianti e artigiani, che hanno deciso di rifiutarsi di pagare il pizzo e di espellere dalle loro associazioni chi continua a pagarlo.
In Italia, ci sono stati tre milioni e mezzo di cittadini che si sono messi in fila per far nascere il Partito Democratico. E con la loro partecipazione, con la loro passione, hanno dimostrato cos’è la buona politica, hanno fatto vedere dov’è che passa il cambiamento.
Le potenzialità dunque ci sono, e sono grandi. Ma senza un progetto, sono destinate a rimanere tali.
Il primo dei problemi dell’Italia è che da troppi anni cresciamo troppo poco e comunque sempre meno degli altri.
Ancora tra il '91 e il '98, la produttività totale dei fattori cresceva, in Italia, ad un ritmo di poco superiore a quello medio dei principali Paesi europei.
Dal '98 al 2000, è cresciuta meno che in Francia e in Germania.
Dal 2000 al 2006, è addirittura diminuita, mentre Germania e Francia continuavano a farla crescere a buon ritmo.
Abbiamo così accumulato, dai primi anni '90, un ritardo di sviluppo di ben 11 punti di PIL rispetto all'area dell'Euro. In moneta, più di 170 miliardi di Euro all'anno.
Se non invertiamo questa tendenza, l’Italia rischia di perdersi.
Il programma del Partito Democratico assume quindi l'aumento della ricchezza nazionale come obiettivo principale della sua strategia politica e di governo.
Anche perché, senza crescita, non c'è politica redistributiva che tenga.
Detto con ancora più chiarezza: senza crescita, senza più ricchezza, non c’è giustizia sociale.
Se l’economia e le imprese vanno male, ogni obiettivo di equità sociale e di creazione di opportunità si allontana.
Lo dimostra il fatto che oggi l’Italia, insieme ad un problema di crescita, ha anche un grave problema di disuguaglianza e immobilità sociale: si è bloccato l'ascensore sociale che consente ai giovani più impegnati, intelligenti e preparati di salire quanto vorrebbero e meriterebbero.
L'Italia è tra i paesi più diseguali d’Europa. In Italia, il 20 per cento più ricco della popolazione possiede quasi sei volte il reddito del 20 per cento più povero. Il rapporto tra reddito e patrimonio è uno a sette, il più alto tra i paesi sviluppati.
L'indice di povertà relativa segnala che il 19 per cento della popolazione è in grave disagio economico. In Svezia questa percentuale è al 9, in Germania e Francia al 13.
Come non bastasse, questa situazione riguarda più le donne dei maschi. Più i giovani degli adulti.
Ciò che è più grave: in Italia, a differenza ad esempio di quanto avviene in Spagna, nei paesi del Nord o in Olanda, il tasso di disuguaglianza, dopo l’intervento pubblico, invece di scendere resta pressoché invariato.
Il programma del Partito Democratico si propone quindi di cambiare profondamente qualità e quantità dell'intervento pubblico, per renderlo capace di aiutare davvero i più poveri ad uscire con le loro gambe dalla situazione di disagio in cui si trovano; di favorire il rapido innalzamento della partecipazione dei giovani e delle donne – specie nel Sud – alle forze di lavoro; di chiamare di più il mercato, secondo un principio di sussidiarietà, a risolvere problemi sociali e ambientali.
Non si possono infatti affrontare in modo efficace i problemi di uguaglianza, se non facendo leva sulla libertà delle persone, ampliando le possibilità per ciascuno di perseguire il proprio disegno di vita, compatibilmente con l'eguale diritto altrui.
L'Italia non ha un problema di libertà, nei termini classici in cui questo problema viene solitamente posto: libertà di manifestazione del pensiero, di associazione, di riunione e simili.
Ma esiste nel nostro Paese un problema di libertà con riferimento a quello che la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti chiama "diritto alla ricerca della felicità": il diritto di ciascuno a perseguire liberamente il proprio disegno di vita, compatibilmente con l'eguale diritto altrui.
Per fare solo alcuni esempi: una giovane mamma desidera dedicare alcuni anni alla cura dei suoi bimbi, per poi ricominciare a lavorare; in Italia, praticamente, non può.
Una pensionata, un pensionato, desidera svolgere un'attività lavorativa part-time, legale e regolare anche fiscalmente; in Italia, praticamente, non può.
Un giovane che voglia accedere ad una professione, senza avere il padre che già la esercita, in Italia quasi sempre si trova davanti ad un muro impossibile da scavalcare.
Se il capitalismo italiano viene definito "relazionale", è per la diffusione di opachi patti di sindacato e strutture piramidali nell'assetto proprietario di molti grandi gruppi, che ne ostacolano la contendibilità, impedendo al mercato di esercitare la sua funzione dinamica e selettiva.
E’ ora di cambiare, di voltare pagina, di liberare la società italiana.
La regolamentazione pubblica definisce lo spazio in cui tutte le libertà, anche quelle private, sono rese possibili ed effettive. Anche per questo, però, essa è chiamata a giustificare il perché di divieti, ostacoli, strettoie che si frappongono fra la libertà individuale e l'effettivo perseguimento del progetto di vita di ciascuno.
Quali di queste giustificazioni siano accettabili è questione che investe la politica, le scelte collettive. Ma è giusto rimuovere quei vincoli – e sono tanti – la cui giustificazione ormai non è più sostenibile.
Meno veti, meno burocrazia, meno conservatorismi.Più crescita, più uguaglianza, più libertà.
Sono queste le tre stelle fisse che orientano il programma del Partito Democratico per il rinnovamento e il rilancio dell’economia e della società italiana.
I Governi di centrosinistra che hanno guidato l'Italia tra il '96 e il 2001 e tra il 2006 e il 2008 hanno creato le condizioni che rendono oggi possibile e realistico un programma di svolta riformatrice: prima con la stabilizzazione economico-finanziaria (Euro), e poi con i primi, importanti successi nella lotta all'evasione fiscale e l'avvio di un migliore controllo della spesa pubblica.
Ora è finalmente possibile, e allo stesso tempo necessario, chiamare a raccolta le forze sociali – le organizzazioni sindacali, la Confindustria, ma anche le associazioni della piccola impresa, del lavoro autonomo, delle professioni, del terzo settore – per una nuova stagione di concertazione, finalizzata allo sviluppo. Però non dimentichiamolo mai: la concertazione è un mezzo, non un fine.
Il Patto del Luglio del '93 aveva una finalità precisa: la stabilizzazione economico-finanziaria. Risultò decisivo per conseguirla, con l'Euro.
Oggi abbiamo bisogno di un nuovo modello, con un nuovo obiettivo: la crescita. L’Italia deve crescere. Deve incrementare la produttività totale dei fattori e crescere.
In questo nuovo contesto, tutti devono cambiare comportamenti e capacità di rappresentanza. La politica, certo, e per prima. Ma anche le forze sociali, per le quali diventa urgente una nuova assunzione di responsabilità, in nome dell’interesse generale del Paese, e una autoriforma delle regole della rappresentanza.
Più crescita, più uguaglianza, più libertà.
Nei prossimi giorni il Coordinamento politico discuterà e approverà un documento programmatico che tradurrà questi principi in una organica proposta al Paese.
Qui mi limiterò ad indicare dodici grandi obiettivi, dodici proposte innovative che possono cambiare l’Italia.
1. Primo: modernizzare l’Italia significa scegliere come priorità le infrastrutture e la qualità ambientale.
Partiamo da qui, da un programma straordinario che si proponga di colmare il grave ritardo che l’Italia ha accumulato.
Il Paese ha bisogno di infrastrutture e servizi che oggi sono ostacolati più da incapacità di decisione che da carenza di risorse finanziarie.
Ecco la novità del nostro ambientalismo del fare: sì al coinvolgimento, alla partecipazione, alla consultazione dei cittadini in tutte le fasi di localizzazione, progettazione e costruzione; ma basta con l'ambientalismo che cavalca ogni movimento di protesta del tipo Nimby, “non nel mio giardino”, e impedisce di fare le infrastrutture necessarie al Paese.
Noi riformeremo la normativa di valutazione ambientale delle opere, con l'eliminazione dei tre passaggi attuali e la concentrazione in un’unica procedura di autorizzazione, da concludere in tre mesi. Una volta assunta la decisione, deve essere previsto un divieto di revoca o l'applicazione di sanzioni pecuniarie elevate con responsabilità erariale a carico degli amministratori pubblici interessati.
La priorità va data agli impianti per produrre energia pulita, ai rigassificatori indispensabili per liberalizzare e diversificare l'approvvigionamento di metano, ai termovalorizzatori e agli altri impianti per il trattamento dei rifiuti, alla manutenzione ordinaria e straordinaria della rete idrica.
E poi al trasporto ferroviario. L’Alta Velocità è il più grande investimento infrastrutturale in corso nel nostro Paese: va completato e utilizzato appieno. Il completamento della TAV metterà a disposizione del trasporto regionale un aumento del 50 per cento delle tratte ferroviarie. Noi le useremo per ridurre il traffico attorno alle grandi città e per dare ai pendolari un servizio finalmente decente.
Dotare il Paese delle necessarie infrastrutture non solo non è in contraddizione con l’obiettivo di tutelare e valorizzare l’ambiente, ma ne è il presupposto. Allo stesso modo, le tecnologie per l'ambiente saranno nei prossimi vent'anni ciò che il comparto della comunicazione è stato nei venti precedenti: la forza trainante dello sviluppo e di un più vasto cambiamento economico e sociale.
Produrre il 20 per cento di energia con il sole e con il vento significa risparmiare miliardi di euro sulle importazioni di petrolio; migliorare l'efficienza energetica significa più competitività per le imprese e risparmio per le famiglie.
E la nostra proposta è un piano per realizzare in dieci anni la trasformazione delle fonti principali di riscaldamento degli edifici, privati e pubblici, in modo da creare al tempo stesso un gigantesco risparmio energetico e un grande volano di crescita economica.
Per anni abbiamo incentivato la rottamazione delle auto. Ora incentiviamo la rottamazione del petrolio.
2. Il secondo grande obiettivo di innovazione è il Mezzogiorno, è la sua crescita, che è poi la crescita dell’Italia.
Gran parte delle politiche per il Mezzogiorno è incentrata sull'utilizzo delle risorse comunitarie. L’efficacia di questa spesa è stata tuttavia spesso deludente, si è assistito alla dispersione dei fondi in una miriade di programmi e si sono così mancate importanti occasioni per utilizzare le risorse in modo da superare i rilevanti gap del Mezzogiorno nelle infrastrutture e nei servizi collettivi.
Si deve quindi procedere a una drastica e veloce revisione dei programmi, e ad un altrettanto drastico accentramento delle risorse su pochi obiettivi, quantificabili e controllabili.
La priorità è quella di portare entro il 2013 la rete delle infrastrutture, a cominciare dal sistema dei trasporti – strade, ferrovie, porti, aeroporti e autostrade del mare – su un livello quantitativo e qualitativo confrontabile con l’Europa sviluppata. E lo stesso vale per servizi essenziali come quelli idrici e ambientali.
Pensiamo alla Sicilia, alla sua collocazione strategica, al suo essere approdo quasi naturale per i traffici commerciali delle economie emergenti dell’area, che fa dell’Isola l’avamposto europeo nel Mediterraneo. Perché questo circuito virtuoso si sviluppi la Sicilia ha bisogno di una rete infrastrutturale che le consenta di diventare davvero, con le altre regioni del nostro Mezzogiorno, la naturale piattaforma logistica per gli scambi di servizi, di beni, di persone, di culture in un’area cruciale del mondo.
3. Terzo grande obiettivo di innovazione è il controllo della dinamica della spesa pubblica. E’ aumentarne la produttività e renderla finalmente quel fattore di sviluppo e di uguaglianza che oggi ancora non è.
Nei cinque anni di governo del centrodestra la spesa corrente primaria è aumentata di due punti e mezzo di PIL. Un'enormità, che spiega da sola il fallimento delle politiche economiche della Casa delle libertà.
In tutto il mondo, la destra liberista ha come slogan “meno Stato più mercato”.
Solo in Italia il centrodestra pensava di poter governare riducendo le tasse e aumentando la spesa.
Alla fine dei cinque anni del governo Berlusconi, la pressione fiscale era stata leggermente ridotta. Peccato però che la spesa corrente primaria, che il centrodestra aveva trovato nel 2000 al 37,3 per cento del PIL sia stata lasciata al 39,9 per cento nel 2005: più 2,6.
Tra minori entrate e maggiori uscite, 3 punti e mezzo di PIL da finanziare: questa è l’eredità che ha trovato il Governo Prodi.
E’ quindi vero che il miglioramento dei conti pubblici, che ha portato alla fuoriuscita dell'Italia dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo in cui era precipitata nel quinquennio 2001-2006, deriva per la parte maggiore da un aumento della pressione fiscale: peraltro, in parte consistente, frutto del successo nella lotta all'evasione fiscale.
Ma non è meno vero, che per la prima volta dopo dieci anni un Governo stava riuscendo a mettere sotto controllo la spesa corrente primaria, che è passata dal 39,9 del 2005 al 39,3 del 2007.
Proprio l’esperienza di questi due anni ci consente di dire credibilmente ai cittadini italiani che nella prossima legislatura, il banco di prova decisivo per il Governo del Partito Democratico è quello riqualificare e ridurre la spesa pubblica. Senza ridurre, anzi facendo gradualmente crescere in rapporto al PIL, la spesa sociale.
Spendere meglio, spendere meno.
Mezzo punto di PIL di spesa corrente primaria in meno nel primo anno, un punto nel secondo e un punto nel terzo: il conseguimento di questo risultato è condizione irrinunciabile per onorare l'altro impegno che assumiamo con i contribuenti italiani, famiglie e imprese: restituire loro, con riduzioni di aliquota e detrazioni, ogni Euro di gettito aggiuntivo, derivante dalla lotta all'evasione fiscale.
Procederemo con innovazioni legislative certo. Ma, soprattutto, con attività di alta amministrazione.
Un maggiore controllo della spesa pubblica è possibile, come dimostrano i dati positivi del 2007. Occorre continuare con tenacia e con rigore.
Noi risparmieremo sugli acquisti di beni e servizi, ricorrendo a grandi piattaforme di acquisto.
Aumenteremo l’efficienza del lavoro pubblico, collegando all’effettiva produttività la dinamica delle retribuzioni, oltre che valutando davvero i dirigenti sulla base del raggiungimento degli obiettivi.
E a proposito di valutazione, è tempo di dare ai cittadini la reale possibilità di giudicare i servizi ricevuti, di fornire indicazioni per il loro miglioramento e di operare per realizzarlo. Non può sempre passare tutto sulla testa delle persone. Questa è una innovazione profonda, per mettere l’Italia sullo stesso piano delle grandi democrazie moderne.
E ancora, per questo: semplificare il nostro barocco sistema amministrativo, ridurre le sovrapposizioni fra uffici, livelli istituzionali, organismi ed enti pubblici, accorpare in un’unica sede provinciale tutti gli uffici periferici dello Stato.
Anche in attesa di una riforma istituzionale più complessiva, che assesti finalmente il Titolo V della Costituzione, cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi Comuni metropolitani, ai quali andranno dati poteri reali in settori importanti come la mobilità.
Utilizzeremo in modo produttivo il grande patrimonio demaniale, con l’accordo di Stato e Comuni, in modo da abbattere contestualmente di qualche punto il debito pubblico, che potrà così scendere più rapidamente al di sotto della soglia del 100 per cento sul PIL.
Libereremo così risorse per almeno un punto di PIL all’anno, attualmente impiegate per pagare interessi sul debito: una posta di bilancio che oggi si mangia quasi la metà dell’intero gettito IRPEF.
Insomma: una politica forte e autorevole, un quadro istituzionale più sereno, un lavoro di lunga lena ma realistico, possono permetterci, nell’arco di pochi anni, di ridurre la percentuale di spesa pubblica sul PIL e, soprattutto, di migliorare la qualità della spesa.
4. Quarto obiettivo, fare quello che non è mai stato fatto e che oggi è possibile fare: ridurre davvero le tasse ai contribuenti leali, che sono tanti, lavoratori dipendenti e autonomi, e che pagano davvero troppo.
Il risanamento della finanza pubblica realizzato negli ultimi due anni, combinato con questo credibile e concreto programma di riduzione e riqualificazione della spesa e con la prosecuzione della lotta all’evasione, permette per il futuro, anche per quello immediato, di programmare una riduzione del carico fiscale.
Per sostenere il potere d’acquisto delle famiglie italiane e affrontare la questione salariale.
Per restituire alle famiglie e alle imprese i frutti della lotta all’evasione e all’elusione.
Per rendere il fisco più amico dello sviluppo delle persone e dell’economia.
Pagare meno, pagare tutti: è questo il terzo grande obiettivo programmatico del Partito Democratico.
Un obiettivo che si traduce, subito, in un incremento della detrazione IRPEF a favore dei lavoratori dipendenti. E dunque in un aumento di salari e stipendi.
La manovra è attuabile in più fasi, in progressiva crescita nel tempo, partendo dai redditi medio-bassi. E può essere usato per portare a regime l'intervento per la restituzione del fiscal-drag: ogni anno, la detrazione aumenta per neutralizzare l'effetto del drenaggio fiscale.
La detrazione può essere utilizzata anche per sperimentare forme di sostegno ai redditi più bassi, come trasferimento a favore dei lavoratori che hanno un reddito così basso da non poter usufruire delle detrazioni di cui pure avrebbero diritto.
Proprio perché abbiamo dimostrato di saper fare la lotta all’evasione fiscale, insieme al controllo della spesa, possiamo essere credibili se ci assumiamo l’impegno, a partire dal 2009, di ridurre gradualmente tutte le aliquote IRPEF: un punto in meno all'anno, per tre anni.
Subito ridurremo invece la pressione fiscale sulla quota di salario da contrattazione di secondo livello: azienda, gruppo, distretto, territorio.
Ridurre le tasse sul salario di produttività è la strada maestra per favorire la crescita e, allo stesso tempo, per redistribuire finalmente un po’ dei vantaggi da aumento della produttività anche a favore dei lavoratori.
Per pagare le tasse, le piccolissime imprese commerciali ed artigiane sopportano esorbitanti costi di regolare tenuta della contabilità. Va dunque significativamente elevato il tetto di 30 mila euro di fatturato per il pagamento a forfait delle diverse imposte e tributi, anche attraverso una differenziazione del tetto stesso per settori e comparti, da concordare con tutte le categorie interessate.
Ad esempio: più alto, fino a 50 mila Euro, per chi produce beni, un po’ più basso per chi produce servizi.
Agli artigiani, ai commercianti, alle piccole imprese in generale voglio dire che semplificheremo drasticamente l’applicazione degli studi di settore per imprese in monocommittenza e contoterzisti, fino a consentire loro la totale fuoriuscita dall'uso di questo strumento.
La revisione degli studi di settore si applicherà all’anno d’imposta in corso e non sarà mai retroattiva.
Abrogheremo la norma che prevede la possibilità di reiterare gli accertamenti.
Daremo maggiore rilevanza alla dimensione territoriale nella definizione degli indicatori utilizzati negli studi.
Potenzieremo la formazione congiunta tra Agenzia delle Entrate e Associazioni di categoria.
5. Il quinto grande obiettivo di innovazione è investire più di quanto mai sia stato fatto sul lavoro delle donne.
Il modello sociale italiano è oggi afflitto da tre gravi patologie: bassi tassi di occupazione femminile, bassa natalità e alti tassi di povertà minorile. Si tratta di un circolo vizioso, che blocca la crescita economica, demografica e “civile” dell’Italia. Che futuro può avere il Mezzogiorno se un quarto dei suoi bambini nasce povero e vive un’infanzia deprivata? Se i suoi quindicenni hanno una preparazione scolastica più simile a quella di Thailandia e Uruguay che a quella della Francia o della Germania, e anche del Trentino e della Lombardia? Che sicurezza economica possono avere le famiglie italiane se la loro maggioranza, soprattutto fra quelle con figli, può contare su un solo percettore di reddito, quasi immancabilmente il maschio adulto?
Per questo noi vogliamo trasformare l’enorme capitale umano femminile inattivo in un “asso” da giocare nella partita dello sviluppo, della competitività, del benessere sociale.
Vogliamo rovesciare il circolo vizioso in un circolo virtuoso. Più donne occupate significa infatti più crescita, più nascite (come dimostra l’esperienza degli altri paesi europei), famiglie più sicure economicamente e più dinamiche e meno minori in povertà.
Per favorire l’occupazione femminile, noi introdurremo incentivi fiscali mirati per il lavoro delle donne, anche al fine di favorire il secondo reddito familiare, e incentivi fiscali per promuovere, sul mercato, un settore di servizi “avanzati” alle famiglie, che sia insieme un settore di occupazione per le donne e un mezzo di conciliazione.
In particolare, pensiamo ad un credito d'imposta rimborsabile per le donne che lavorano, adeguato a sostenere le spese di cura, così da essere incentivante e graduato in rapporto al numero dei figli e al livello di reddito. Tutte le donne lavoratrici, siano dipendenti, autonome o atipiche, con figli e reddito familiare al di sotto di una certa soglia che potrà crescere nel tempo, dovranno poterne beneficiare. Nei primi due anni della legislatura, il credito d’imposta potrà essere applicato alle donne lavoratrici del Sud, per poi essere esteso a tutto il territorio nazionale.
Vareremo inoltre una legge sull’eguaglianza di genere nel mercato del lavoro, come in Spagna, e stabiliremo punteggi più elevati nelle graduatorie per gli appalti alle aziende che rispettano la parità di genere.
E ai livelli più alti, vogliamo che i Consigli d’Amministrazione delle aziende pubbliche siano formati, per metà, da donne.
Per la conciliazione tra lavoro e maternità, proponiamo orari flessibili e “lunghi” negli asili, nelle scuole elementari e negli uffici pubblici che rendono i principali servizi ai cittadini; gli asili dovranno chiudere solo una settimana a Ferragosto; le scuole elementari dovranno organizzare attività estive e restare aperte anche al pomeriggio; gli orari del commercio dovranno essere liberalizzati.
Proponiamo anche un nuovo congedo di paternità interamente retribuito, dalle imprese, come nei paesi scandinavi, addizionale alla maternità/paternità già oggi prevista, e non fruibile dalle donne; congedi parentali al 100 per cento per 12 mesi, come in Francia; incentivi alla flessibilità di orario richiesta dal dipendente.
E se parliamo di dignità femminile, di libertà e responsabilità delle donne italiane, fatemi dire ancora una volta con estrema chiarezza: la legge 194 è una buona legge, è una legge contro il dramma dell’aborto, tanto che ha sottratto le donne dall’incubo della clandestinità e in trent’anni ha quasi dimezzato il numero degli aborti. Discutiamo di come applicarla integralmente, di come valorizzarne gli aspetti di prevenzione. Ma è una legge che va difesa ed è un tema che va tenuto fuori dalla campagna elettorale.
6. Il sesto obiettivo di innovazione è aumentare il numero di case in affitto. In Italia la quota di patrimonio immobiliare in affitto è pari al 19 per cento, contro il 60 in Germania, tra il 40 e il 50 in Austria, Danimarca, Francia, Paesi Bassi e Svezia, il 30 nel Regno Unito.
La scarsa disponibilità di case in affitto blocca la mobilità, specie dei giovani e delle giovani coppie. Il terzo delle famiglie che non possiede abitazioni è esposto al rischio di aumenti dei costi degli affitti e alle difficoltà di poter acquistare una casa senza venderne un'altra.
Tra le misure che proporremo per aumentare l’offerta di case in affitto, un grande progetto di social housing realizzato da fondi immobiliari di tipo etico a controllo pubblico, con ruolo centrale della Cassa Depositi e Prestiti, che può mobilitare risorse per 50 miliardi di euro, senza intervento di spesa pubblica, per la costruzione e gestione di 700 mila unità abitative da mettere sul mercato a canoni compresi fra i 300 e i 500 euro.
E una coraggiosa riforma del regime fiscale degli affitti: tassare il reddito da affitto ad aliquota fissa, ferma restando l’opzione per la condizione di miglior favore; e consentire la detraibilità di una quota fissa dell’affitto pagato fino a 250 euro mensili.
7. Il settimo grande obiettivo programmatico del Partito Democratico è quello di invertire l’attuale trend demografico, aiutando in modo significativo le famiglie con figli, mediante l’istituzione della Dote fiscale per il figlio, proposta dalla Conferenza governativa di Firenze sulla famiglia.
La Dote sostituisce gli attuali Assegni per il nucleo familiare e le detrazioni Irpef per figli a carico, assicura trattamenti significativamente superiori a quelli attuali, si rivolge anche ai lavoratori autonomi.
La Dote parte da un valore pieno di 2.500 euro annui sul primo figlio, aumentando col numero dei figli secondo parametri di equivalenza e riducendosi regolarmente in funzione del reddito familiare, ma in modo da migliorare i trattamenti anche per i redditi medi e medio-alti.
Per le famiglie incapienti con figli, la Dote stessa fa da imposta negativa in quanto viene erogata come trasferimento.
L'asilo nido deve diventare un servizio universale, disponibile per chiunque ne abbia bisogno. Il nostro obiettivo, in collaborazione con le Regioni e gli enti locali, è quello di raddoppiare il numero dei posti entro cinque anni, in modo da assicurare il servizio ad almeno il 20 per cento dei bambini da 0 a 3 anni.
E’ anche con questi strumenti che si sostiene la famiglia, che la si aiuta a svolgere la sua importante funzione sociale.
Dobbiamo fare della nostra una società a misura di bambino, riservando all’infanzia i tempi e gli spazi di cui ha bisogno.
E difendendo i bambini dalle violenze, spesso familiari, e dalle insidie che una società predona mette in atto nei loro confronti.
Lo dico tornando per un momento all’esperienza che ho vissuto negli ultimi sette anni. Come Sindaco ho incontrato migliaia di bambini. Li ho visti felici negli asili, nelle scuole, nei parchi giochi insieme ai loro genitori. Li ho visti non perdere il sorriso e l’allegria negli ospedali. Ho incontrato, ed è questa la cosa più dura, lo sguardo dei bambini che avevano subito un trauma, una violenza, un abuso.
Io su poche cose non ho dubbi come su questa: la pedofilia è per me il più orrendo dei crimini, è equiparabile ad un delitto, perché è la vita di un piccolo innocente che si spezza. Come tale la giustizia lo deve perseguire, con la più assoluta durezza, anche nell’erogazione della pena.
8. Ottavo obiettivo, ottava sfida di innovazione: fare della Scuola, dell’Università, della Ricerca un sistema all’altezza delle sfide della società della conoscenza. Mi limito qui ad anticipare alcune proposte.
Abbiamo bisogno di “campus” scolastici e universitari. Abbiamo bisogno che per i ragazzi i luoghi di formazione non siano come una fabbrica o un ufficio, ma dei centri di vita e di formazione permanente.
Ci sono risorse non solo per riqualificare le strutture esistenti, ma per farne i luoghi più belli e accoglienti del quartiere. Scuole aperte il pomeriggio, con architetture nuove, attrezzature didattiche di qualità, strumenti tecnologici e impianti sportivi.
Cento “campus”, universitari e scolastici, dovranno essere pronti per il 2010. Delle centrali di sapere per le comunità locali. Dei luoghi di formazione e di “internazionalizzazione” per i nostri ragazzi.
Il secondo impegno riguarda la valutazione. Tutti gli studenti delle scuole italiane saranno periodicamente sottoposti a test oggettivi, che serviranno alle famiglie per valutare la qualità dell’apprendimento dei ragazzi e della scuola che frequentano.
Perché è sul talento e sul merito che la società italiana dovrà contare. Perché il talento e il merito, se uniti alla costruzione di un sistema di pari opportunità, sono il miglior propellente della crescita e della coesione sociale.
E fatemi dire, a quarant’anni dal ’68, che chi allora proponeva il “6 politico” produceva un falso egualitarismo che perpetuava le divisioni sociali e di classe esistenti.
Il terzo impegno riguarda gli insegnanti: noi investiremo sulla loro passione e la loro competenza, la vera risorsa di una scuola di qualità, avviando una vera e propria carriera professionale degli insegnanti che valorizzi, anche qui, il merito e l’impegno.
Investire sulla professionalità docente significa ad esempio prevedere per gli insegnanti periodi sabbatici di aggiornamento intensivo, così come avviene per i professori universitari.
Quanto alla ricerca, dobbiamo spingere le imprese a investire più risorse, concentrando solo sugli investimenti in ricerca e sviluppo i contributi a fondo perduto.
9. Il nostro nono grande obiettivo è in realtà una priorità assoluta: la lotta alla precarietà. E in senso più ampio la qualità del lavoro, la sua sicurezza.
Comincio da questa: si tratta di difendere e promuovere standard minimi di civiltà. Ma si tratta anche di far avanzare un’idea alta della competizione e della produttività. Dobbiamo vincere sui mercati internazionali per la qualità delle nostre produzioni, quindi per la forza del nostro lavoro, non perché ci illudiamo di poter competere sui costi, mettendo in pericolo la sicurezza e sacrificando i diritti dei lavoratori.
Ed io sono orgoglioso di potervi annunciare la prima candidatura del Partito Democratico alle prossime elezioni: è quella di Antonio Boccuzzi, operaio della Thyssen, sindacalista, unico sopravvissuto dei sette che quella notte si trovavano sulla linea cinque.
La sicurezza del lavoro, poter lavorare senza morire e senza farsi male, è un diritto fondamentale della persona umana, che non può essere comprato e venduto a nessun prezzo.
Bisogna creare un'unica Agenzia Nazionale per la sicurezza sul lavoro, come luogo di indirizzo e coordinamento per l'attività ispettiva, preventiva e repressiva, anche rafforzando il ruolo della concertazione.
Anche grazie all'attività dell'Agenzia, potrà essere realizzato un sistema di forti premi per le imprese che investono in sicurezza, agendo sul livello della contribuzione;
I lavoratori in nero sono anche i più esposti al rischio infortuni. Vanno quindi premiate le imprese che accolgono l'invito a regolarizzarsi e a rispettare i contratti.
In Italia un numero consistente di lavoratori ha retribuzioni inaccettabilmente basse; si trovano per questo in una situazione di povertà che riguarda soprattutto i lavoratori atipici, giovani, donne, e che si cumula spesso con condizioni di precarietà dell'occupazione.
Noi intendiamo contrastare con decisione questa situazione, con misure diverse e convergenti.
La più importante è la sperimentazione di un compenso minimo legale, concertato tra le parti sociali e il governo, per i collaboratori economicamente dipendenti, con l'obiettivo di raggiungere 1.000 euro mensili.
Troppi giovani sono ora “intrappolati” troppo a lungo, spesso per anni, in rapporti di lavoro precari.
Noi contrasteremo questa situazione, facendo costare di più i lavori atipici e favorendo un percorso graduale verso il lavoro stabile e garantito. Un percorso che preveda un allungamento del periodo di prova e una incentivazione e modulazione del contratto di apprendistato come strumento principale di formazione e di ingresso dei giovani nel lavoro.
In un primo periodo, di lunghezza variabile da definire con le parti secondo le necessità di formazione, i trattamenti e le agevolazioni all’impresa restano quelle attuali; alla fine di questo periodo si procede alla verifica della qualificazione dell’apprendista, con la possibilità di continuare il rapporto, se necessario a completare la formazione, con ulteriori agevolazioni.
Dopo questo ulteriore periodo vanno previsti incentivi all’impresa che trasforma il rapporto in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
10. Il decimo obiettivo di innovazione riguarda uno dei primi diritti, forse il primo, che ogni individuo ha: quello alla sicurezza.
Malgrado l’impegno generoso delle forze dell’ordine, i cittadini si sentono più insicuri: la qualità della vita ne viene gravemente danneggiata. E il danno è più grave per chi è più debole.
Far sentire sicuri i cittadini, aumentando la presenza di agenti per strada e anche utilizzando nuove tecnologie è uno dei principali obiettivi programmatici del Partito Democratico.
E’ questione di entità delle risorse pubbliche dedicate, ma è soprattutto questione di migliore impiego delle risorse umane e finanziarie già disponibili. Se si vogliono più agenti in divisa a presidio del territorio, di giorno e di notte, in centro e in periferia, nelle città e nelle campagne, si impongono misure radicali.
Trasferiremo ai comuni funzioni amministrative e vareremo un piano di mobilità interna alla Pubblica Amministrazione di personale civile oggi sottoutilizzato, per impiegarlo nelle attività amministrative di supporto alle attività di polizia.
Le nuove tecnologie, a cominciare dalle reti senza fili a larga banda (WI-FI, WIMAX) consentono un’infinita possibilità di controllo del territorio. Col loro impiego si possono aiutare i cittadini più esposti alla paura: le donne che escono sole di notte, gli anziani che si muovono nel quartiere, i bambini che vanno a scuola, possono essere protetti dalla rete, attivando un allarme in caso di pericolo.
Le stesse iniziative di video sorveglianza dei privati, che nascono come funghi, potrebbero avere convenienza a diventare un terminale della rete, contribuendo alla sua espansione e ottenendo in cambio preziosi vantaggi.
Stazioni e fermate del trasporto pubblico possono diventare, da luogo insicuro per definizione, l’esatto contrario: le “boe della sicurezza” nel mare metropolitano, consentendo collegamenti agili con le forze dell’ordine.
La sicurezza dipende anche dalla certezza della pena. Troppo frequenti sono i casi di condannati per reati di particolare allarme sociale che vengono ammessi a rilevanti benefici di legge senza avere mai scontato un giorno di carcere.
Il “pacchetto sicurezza” approvato dal Consiglio dei Ministri il 30 ottobre scorso aveva ampliato il numero dei reati particolarmente odiosi, fra questi la rapina, il furto in appartamento, lo scippo, l’incendio boschivo e la violenza sessuale aggravata. E in tutti questi casi prevedeva l’obbligo della custodia cautelare in carcere, il giudizio immediato, l’applicazione d’ufficio della custodia cautelare in carcere già con la sentenza di primo grado e l’immediata esecuzione della sentenza di condanna definitiva senza meccanismi di sospensioni.
Su questa linea noi proseguiremo.
11. Di innovazione ha bisogno un’altra sfera decisiva nella vita di un Paese e di ogni suo cittadino: quella della giustizia, della legalità.
Da troppi anni, in Italia, il confronto e lo scontro sulla giustizia riguardano esclusivamente i rapporti tra la politica e la magistratura.
Su questo tema il Presidente Napolitano ha pronunciato giovedì scorso, davanti al plenum del Csm, parole chiare e dal nostro punto di vista conclusive.
Vorrei tuttavia che, in materia di etica pubblica e di moralità politica, noi fossimo capaci di essere più severi con noi stessi di qualunque legge e qualunque magistrato.
Il Partito Democratico non può disporre per altri partiti. Ma per se stesso, sia attraverso il codice etico, sia attraverso norme statutarie relative ai comportamenti di suoi iscritti eletti nelle istituzioni, il partito stabilisce indicazioni rigorose in particolare sulla qualità delle nomine di cui i suoi rappresentanti dispongono.
Codici di comportamento e regole deontologiche lasciano il tempo che trovano, osserveranno gli scettici. Non è vero: i cittadini sono sensibili all’onestà in politica e, se l’onestà diventa un vantaggio competitivo, anche gli altri partiti seguiranno l’esempio del nostro.
In ogni caso, noi proporremo norme innovative per la trasparenza delle nomine di competenza della politica. Per ognuna di esse, dovranno essere predeterminati e resi pubblici criteri di scelta fondati sulle competenze; attivate procedure di sollecitazione pubblica delle candidature; infine, pubblicato lo stato e gli esiti delle procedure di selezione.
Noi proporremo anche di introdurre nel nostro ordinamento il principio della non candidabilità al Parlamento dei cittadini condannati per reati gravissimi come quelli connessi alla mafia e alla camorra, alle varie forme di criminalità organizzata, o per corruzione o concussione.
Ma la vera emergenza giustizia, quella che l’opinione pubblica avverte come tale, perché ha effetti devastanti sia sulla sicurezza dei cittadini che sullo sviluppo economico del Paese, è quella dei tempi del processo, sia penale che civile, che vedono l’Italia agli ultimi posti in Europa e nel confronto coi Paesi avanzati di tutto il mondo.
Il nostro undicesimo grande obiettivo programmatico è allora ridurre sensibilmente questi tempi, portandoli entro la legislatura a livelli europei.
Noi porteremo a compimento le riforme avviate negli scorsi anni, come la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile e di quello penale. Ma adotteremo anche provvedimenti amministrativi che possono essere presi immediatamente, per accrescere l’efficienza del sistema giudiziario italiano.
Penso ad esempio alla gestione manageriale degli Uffici giudiziari, anche prevedendo la figure del manager dell'Ufficio Giudiziario, un magistrato appositamente formato per l'assolvimento di questo compito. Penso alla realizzazione del processo telematico, per eliminare gli infiniti iter cartacei. O ancora alla modifica dei contratti tra avvocati e clienti, attualmente basati sulla durata del processo, verso forme basate su premi alla rapidità.
C’è poi il nodo delle intercettazioni telefoniche, informatiche e telematiche. E’ uno strumento essenziale al fine di contrastare la criminalità organizzata e assicurare alla giustizia chi compie i delitti di maggiore allarme sociale, quali la pedofilia e la corruzione. Si tratta di conciliare queste finalità con i diritti fondamentali, come quello all’informazione e quelli alla riservatezza e alla tutela della persona.
In parole semplici: ai magistrati deve essere garantita la massima libertà, ai cittadini la massima tutela.
Il divieto assoluto di pubblicazione di tutta la documentazione relativa alle intercettazioni e delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misura cautelare fino al termine dell’udienza preliminare, e delle indagini, serve a tutelare i diritti fondamentali del cittadino e le stesse indagini, che risultano spesso compromesse dalla divulgazione indebita di atti processuali.
E’ necessario individuare nel Pubblico Ministero il responsabile della custodia degli atti, ridurre drasticamente il numero dei centri di ascolto e determinare sanzioni penali e amministrative molto più severe delle attuali, per renderle tali da essere un’efficace deterrenza alla violazione di diritti costituzionalmente tutelati.
12. Dodicesimo obiettivo di innovazione, dodicesima sfida: portare la banda larga in tutta Italia e garantire a tutti gli italiani una TV di qualità.
L’effettiva possibilità di accesso alla rete a banda larga deve diventare un diritto riconosciuto a tutti i cittadini e a tutte le imprese, su tutto il territorio nazionale, esattamente come avviene per il servizio idrico o per l’energia elettrica.
Noi realizzeremo, a partire dalle grandi città, reti senza fili a banda larga per creare un ambiente disponibile alla gestione di nuovi servizi collettivi. Non c’è bisogno di grandi investimenti pubblici: sono tecnologie infinitamente meno costose delle classiche opere pubbliche. Soprattutto, sono sistemi che attivano l’iniziativa dei privati, creano nuove convenienze a cooperare, attraggono investimenti.
Sviluppare un programma nazionale per le info-città è tanto più importante per far entrare l’Italia nell'era della TV digitale con più libertà, più concorrenza, più qualità, più autonomia dalla politica.
Più libertà significa superamento del duopolio, oggi reso possibile dall'aumento di canali garantito dalla TV digitale. Per andare oltre il duopolio occorre correggere gli eccessi di concentrazione delle risorse economiche, accrescendo così il grado di pluralismo e di libertà del sistema.
La libertà di informazione è un cardine della democrazia, come ci ha insegnato un grande giornalista, che resta nel cuore di tutti gli italiani, Enzo Biagi.
Più concorrenza significa ricondurre il regime di assegnazione delle frequenze ai principi della normativa europea e della giurisprudenza della Corte costituzionale.
Più qualità: noi proponiamo di istituire un fondo, finanziato da una aliquota sui ricavi pubblicitari, che finanzi le produzioni di qualità. Dire qualità e dire Italia è la stessa cosa. Vale se pensiamo alla nostra cultura. Se pensiamo a un settore in cui non è possibile che il nostro Paese abbia pero tante posizioni: quello del turismo.
Più autonomia della televisione dalla politica significa, subito, nuove regole per il governo della RAI. La nostra idea è quella di una Fondazione titolare delle azioni, che nomina un amministratore unico del servizio pubblico responsabile della gestione.
Queste sono alcune delle nostre idee per cambiare il Paese. Questo è il cammino di innovazione che attende l’Italia.
Il nostro Paese deve tornare ad avere voglia di futuro. Deve tornare a correre.
Ma per riuscire farlo, per essere “viaggiatori leggeri”, dobbiamo liberarci di un peso. E’ il peso dei veti, dei no, dei conservatorismi e delle paure.
E’ un peso che rende malata la nostra democrazia, che indebolisce la forza delle istituzioni, che aumenta l’impotenza di un sistema frammentato e inadeguato, che riduce al minimo la credibilità di una politica che appare ai cittadini tanto arrogante e invadente, quanto inconcludente quando si tratta di prendere decisioni, quando si deve interpretare il bisogno, che nel Paese c’è, di unità, di coesione attorno a obiettivi di interesse comune.
L’Italia ha bisogno di altro. Gli italiani devono sentire di poter contare su una democrazia che funzioni, su istituzioni forti e autorevoli, su una politica lieve e trasparente, che sappia per prima far vivere i principi della responsabilità e della decisione.
Lo abbiamo sostenuto per mesi. Ci siamo spesi per questo dando vita ad un confronto aperto e dettagliato con tutte le forze politiche. Abbiamo insistito nelle ultime settimane, e nei giorni del generoso tentativo del Presidente Marini.
Ma si è preferito dire di no. Si è voluto portare di corsa il Paese al voto pensando che questa fosse la convenienza. Una grande occasione perduta per dare alla democrazia italiana stabilità e governabilità. Un’occasione perduta per dare prova di quel coraggio della responsabilità che una parte della politica italiana sembra aver perduto. E che il breve respiro non porti lontano appare tanto più chiaro oggi, mentre tra i nostri avversari si sta sgretolando la certezza, inossidabile fino a qualche tempo fa, di una vittoria conquistata a mani basse.
Noi abbiamo introdotto una novità: nel momento in cui lavoravamo per un nuovo bipolarismo, abbiamo unilateralmente abbandonato il paradigma che fondava il vecchio: la demonizzazione dell’avversario.
Abbiamo uno schema che è quello tipico delle grandi democrazie: convergenza per la scrittura delle regole e poi conflitto programmatico e politico per chi deve governare il Paese. Ma il conflitto, appunto, è “per” e non “contro”.
Questa novità di linguaggio, che abbiamo scelto da soli da molti mesi, inevitabilmente condiziona in modo positivo tutto il confronto politico, che fin qui si è svolto con toni nuovi.
Sono i toni sollecitati dal Presidente Napoletano, e sono anche i toni che gli italiani, stanchi delle risse più finte che vere, preferiscono.
Anche per questo sarebbe stato giusto cambiare un’insulsa legge elettorale.
Chi l’ha scritta l’ha definita come sappiamo. Chi l’ha votata, o ha promosso un referendum per abrogarla o ha convenuto sulla necessità di cambiarla, e fino ad un certo punto ha lavorato per questo.
Ora si dice che questa legge può funzionare benissimo e garantire perfettamente la governabilità del Paese. Non è così. E lo sa bene anche chi lo afferma.
Quello della riforma della legge elettorale resterà un problema aperto dall’inizio della prossima legislatura. E a chi non vorrà vederlo sarà comunque il referendum, dopo non molti mesi, a ricordarlo.
Ma ripeto: è il senso di responsabilità che deve far comprendere a tutti che l’Italia ha bisogno di una democrazia che funzioni, di una democrazia che sappia decidere. E anche in modo coraggioso, con una velocità pari a quella del Paese.
Una legge per essere approvata deve passare una o due volte in due rami del Parlamento. Non c’è bisogno. Sia una sola Camera ad avere la funzione legislativa.
Il primo ministro non può, come avviene altrove, proporre nomina e revoca dei ministri al Presidente della Repubblica. Non può varare una legge finanziaria senza che questa subisca lo stillicidio degli emendamenti, che vuol dire tempo e altre decisioni perse, quando tutto il confronto giusto e necessario, come avviene altrove, potrebbe svolgersi approfonditamente prima, nelle Commissioni. Più forza alla figura del premier non vuol dire altro che una democrazia che funziona meglio.
Abbiamo, un vero record tra le grandi democrazie, mille tra deputati e senatori. Troppi. Ogni proposta di legge può essere scritta, e ogni decisione può essere presa, da un numero drasticamente ridotto di parlamentari. Cominciamo anche così ad abbattere i costi della politica.
E a proposito della sua credibilità, di come è stata minata in questi anni dai passaggi di questo o quel parlamentare da una parte all’altra e a volte all’altra ancora, non ho trovato nessuno che non abbia convenuto, in questi mesi, sulla necessità e sulla possibilità di riformare i regolamenti parlamentari in modo da escludere la costituzione di gruppi che non corrispondano alle liste presentate alle elezioni.
Bene, proprio perché tutti si son detti d’accordo, rinnovo la proposta: si approvi subito, in questo Parlamento, nelle prossime settimane, la riforma dei regolamenti.
E ancora, se vogliamo che la politica davvero, sempre più, sia partecipazione e responsabilità, in questo caso delle persone, facciamolo: diritto di voto alle amministrative ai cittadini immigrati e a tutti i ragazzi di sedici anni.
Questa è la società che vogliamo. Una società aperta, fondata sulla libertà e la responsabilità. Una società che considera le differenze una ricchezza, rispetta le scelte di ognuno e si oppone a qualunque forma di discriminazione e di intolleranza e ai fenomeni di risorgente omofobia. Una società capace di riconoscere i diritti delle persone che si amano e convivono.
L’ho detto domenica a Spello, voglio ripeterlo qui: non è l’Italia, a doversi rialzare, non sono gli italiani, che sono bene in piedi, che lavorano, studiano, creano, sperano e vogliono partecipare, contare, decidere. E’ la politica che deve risollevarsi.
E comunque comincerà ad apparire chiaro a tutti: noi non aspettiamo i ritardi degli altri e non ci facciamo bloccare dai veti, dai rifiuti, dai calcoli interessati o dalle timidezze, dalla paura della novità.
Il Partito Democratico è nato dalla generosità e dall’entusiasmo con cui milioni di persone si sono lasciati alle spalle grandi storie o si sono gettati per la prima volta nella loro vita in una sfida affascinante. E’ nato dal coraggio disinteressato di chi ha messo in discussione il proprio ruolo, le proprie responsabilità, se volete le proprie comodità.
Vale a dire: il cambiamento, il gusto del nuovo, è nel nostro stesso atto di nascita. Ed è nel nostro modo di essere e di interpretare la politica.
Per questo non abbiamo avuto paura di rompere il vecchio schema politico.
Probabilmente chi ha guardato a noi con gli occhi di una volta avrà pensato fosse solo tattica, fossero solo parole.
Se è così, ha avuto non solo il tempo per ricredersi, ma anche per maturare il convincimento che la nostra scelta di presentarci agli italiani, da soli con le nostre idee e le nostre proposte, finalmente liberi, segna la fine di un’epoca e obbliga tutti al cambiamento.
E’ stato sufficiente aver avuto il coraggio per farlo, ed è come se una voce si fosse alzata a dire che “il re è nudo”.
Improvvisamente tutti hanno visto quel che era evidente: siamo andati avanti per quindici anni con alleanze tanto grandi quanto eterogenee, fittizie, pensate solo per battere l’avversario, anzi per distruggere il nemico. Poi, puntualmente, esecutivi che non potevano realizzare programmi e governare. E altrettanto puntualmente puniti dagli elettori la volta dopo, visto che nessun governo, in questa lunga stagione di bipolarismo abbozzato, è stato confermato per due volte di seguito.
Non lo si è voluto fare insieme? Noi abbiamo cominciato unilateralmente a cambiare la politica italiana.
E’ questo che sta facendo il Partito democratico. E’ questo che sta accadendo dopo che noi abbiamo deciso: basta mediare, basta attenuare, basta ritardare o rinunciare.
Oggi siamo finalmente liberi di dire agli italiani quello che pensiamo e vogliamo. E se guadagneremo la loro fiducia saremo finalmente liberi di governare. Liberi di imprimere al Paese la svolta riformista che serve.
Diciamo la verità, l’altro effetto della nostra scelta è stato quello di far capire agli italiani che si trovano davanti ad una alternativa secca.
Quando il principale esponente dello schieramento nostro avversario si è presentato ai telespettatori seduto sulla stessa scrivania di sette anni fa, agli italiani è sembrato di assistere alla replica dello stesso film. Immagini già viste. Parole già sentite.
Noi segniamo un elemento di discontinuità.
Quando lo stesso esponente dello stesso schieramento si candida per la quinta volta alla guida del Paese, cosa che non è mai successa in nessuna grande democrazia, agli italiani è sembrato di tornare indietro, ad una lunga storia già vissuta e troppo lunga. Quindici anni. Metà con governi di centrosinistra. Metà con governi di centrodestra. E problemi di ieri che sono diventati quelli di oggi.
Noi segniamo un elemento di discontinuità.
La radicalità della nostra scelta ha prodotto e sta producendo effetti di autentico terremoto della vita politica italiana. E’ quanto pensavamo sarebbe successo. E’ quanto è giusto accada.
Noi abbiamo scelto di chiudere l’esperienza nazionale di coalizioni la cui eterogeneità programmatica è ogni giorno confermata dalle dichiarazioni, che rispetto, degli amici della sinistra Arcobaleno, ai quali voglio rivolgere un augurio di buona fortuna per la loro scelta di autonomia.
Noi con questa scelta abbiamo definito con chiarezza il nostro campo e il campo del governo che ci sarà. E’ il campo del centrosinistra riformista. Chi voterà per noi avrà la certezza che il riformismo, libero da condizionamenti e veti, diventerà governo del Paese.
Ma il vero terremoto è ora nel centrodestra.
Precipitati verso le elezioni con la bottiglia di champagne in mano, ora per effetto della nostra iniziativa vedono squadernate le loro divisioni e le loro lacerazioni. Impossibilitati a fare quello che avevano pensato, e cioè una coalizione di 18 partiti che dopo la nostra scelta sarebbe apparsa “marziana”, sono stati costretti da un lato a improvvisare un cartello che non si capisce se sia un partito o una lista elettorale, e dall’altro a scaricare alleati.
Ma al contrario di quanto abbiamo fatto noi, che abbiamo concluso la nostra esperienza con la sinistra radicale, Forza Italia ha ritenuto di dover concludere la sua esperienza con le forze moderate di centro, alleandosi con AN e con il movimento di estrema destra guidato dalla signora Mussolini.
Così il panorama politico italiano è cambiato. E’ obiettivamente, nessuno lo può negare, uno spostamento a destra.
E tutto questo avviene con l’anomalia della ripetizione di quel film già visto, di quei protagonisti già sperimentati.
L’alternativa oggi è netta: da una parte la ripetizione di un passato conosciuto, dall’altra l’investimento sul futuro.
Fu la scelta fatta dagli americani quando uscirono dal reaganismo scegliendo Bill Clinton. Fu la scelta degli inglesi quando, uscendo dal lungo periodo del thatcherismo, diedero fiducia a Tony Blair. Ora ci siamo. Domani, da Pescara, inizierà il nostro viaggio. Dodicimila chilometri in pullman per toccare tutte le 110 province italiane. Due mesi per ascoltare, per dialogare, per proporre, per costruire insieme un’Italia nuova.
Accanto a noi ci sarà Antonio Di Pietro, ci sarà l’Italia dei valori, la forza politica che ha accettato di condividere il programma, di entrare a far parte dello stesso gruppo parlamentare all’indomani delle elezioni, di intraprendere un percorso che ci farà ritrovare insieme nel Partito Democratico.
E oggi, da qui, voglio rinnovare ancora una volta l’invito a Emma Bonino e al suo partito ad essere con noi per continuare la bellissima esperienza che Emma ha fatto come ministro capace e autorevole.
Mi rivolgo non solo ad Emma, alla quale mi lega una stima e un’amicizia profonda, ma al patrimonio di pensiero e di battaglie che i radicali hanno compiuto spesso in solitudine. So, ed è stato ribadito ancora oggi, che quel partito e quella storia non intendono sciogliersi. E per questo ribadisco che la soluzione migliore è che le liste del Partito Democratico si aprano ad Emma e ai dirigenti radicali. Così riusciremo a far convivere l’identità radicale e la presenza nelle istituzioni della Repubblica.
Più difficile appare capire per quale ragione il nuovo Partito socialista, che in questi anni si è presentato sotto quasi tutte le sigle possibili e immaginabili, con quasi tutti gli alleati possibili e immaginabili, rinunciando quasi sempre al proprio simbolo, solo in questa circostanza, quando è possibile partecipare alla grande occasione della costruzione di un soggetto riformista, voglia invece sottrarsi a questa prospettiva e rischiare di disperdere un valore della vita politica italiana, la cui identità noi rispettiamo.
Ci auguriamo che il nostro invito, che è stato il contrario di un invito allo scioglimento, possa essere accolto.
E comunque, fatemi dire che nei prossimi giorni annunceremo la decisione di tanti protagonisti della vita economica, sociale, istituzionale e civile del Paese, di partecipare con noi alla sfida del cambiamento.
Considero queste tante e autorevoli disponibilità come un segno del vento nuovo che comincia a spirare.
Le candidature dovranno esprimere la ricchezza dell’esperienza sociale, culturale, civile e del pluralismo del Partito Democratico.
Ma c’è un segno di novità che più di ogni altro va dato. L’impegno che assumo oggi è quello di raddoppiare il numero delle donne del Partito Democratico in Parlamento. E come ho fatto per gli organismi dirigenti, state certe e state certi che terrò fede a questo impegno.
Per quanto riguarda me, ho preso una decisione: non sarò capolista in nessuna circoscrizione e sarò candidato come numero 2 in tre di esse. In due sarò in lista dietro ad una ragazza e ad un ragazzo di talento, giovani italiani con meno di trent’anni. In una grande circoscrizione del Nord, mi farà piacere di avere davanti a me nella lista un giovane protagonista di quella nuova stagione dell’imprenditoria che considero una risorsa per l’Italia. sarà capolista per il Partito Democratico Matteo Colaninno, fino a questa mattina presidente nazionale dei giovani imprenditori italiani.
Voglio dire ancora una cosa. Voglio ringraziare chi ha deciso, con un gesto che non ha tanti paragoni, di favorire l’innovazione delle liste. Mi riferisco in primo luogo al nostro Presidente del Consiglio, all’italiano che ha guidato il Paese verso l’Euro, all’italiano che ha guidato l’Europa nel tempo del suo consolidamento e della sua estensione, all’italiano che in una situazione politicamente difficile è riuscito a risanare i conti dello Stato e a far rispettare l’Italia nel mondo: Romano Prodi.
Un altro ex-presidente del Consiglio ha deciso di non candidarsi. Giuliano Amato dà ancora una volta una dimostrazione al tempo stesso del suo disinteresse personale e del suo sostegno alla sfida della costruzione di quel grande soggetto riformista che è stato il sogno della sua vita politica.
Dopo aver rivolto a loro i miei ringraziamenti, voglio ringraziare due di noi che stanno per ingaggiare battaglie diverse ed ugualmente affascinanti.
Grazie ad Anna Finocchiaro, per il coraggio con cui ha deciso di essere in prima fila, in prima persona, impegnata a rinnovare la Sicilia e a farne una terra di legalità e di sviluppo. Sono con te, ne sono certo, i protagonisti della Sicilia migliore, come i giovani che combattono il pizzo, gli imprenditori che denunciano il racket, persone come Rita Borsellino, che incarnano la Sicilia dell’onestà e dell’impegno civile. Sappi Anna che tutti noi siamo al tuo fianco, ed io che ho tanto insistito con te, ti voglio dire il mio e il nostro grazie.
Spero che nelle prossime ore sciolga la sua riserva Francesco Rutelli, che è la candidatura più autorevole per guidare questa meravigliosa città. E lo dico qui, in questa nuova Fiera, simbolo della Roma che è diventata motore e non zavorra dell’economia italiana. In questo luogo, che fu progettato dalla sua amministrazione, che è stato realizzato dalla mia e che è solo uno dei tanti simboli della nuova Roma.
A Spello, pochi giorni fa, abbiamo voluto dire a quale Italia pensiamo, quale Italia vogliamo. Anche questa è una novità.
Contano i programmi, contano le proposte concrete, contano i modi con cui realizzarle. Oggi abbiamo cominciato a rendere chiaro tutto questo. E insieme conta trasmettere il senso di ciò in cui si crede, i valori dai quali ci si fa guidare, la direzione di marcia che si vuole imprimere ad una comunità.
Io credo che questo gli italiani lo capiscano, e lo apprezzino.
Ho ricevuto tantissime lettere, e tantissime e-mail, in questi giorni.
Vorrei leggervene tre, scritte da persone con diverse idee e diverso atteggiamento, almeno fino a ieri.
La prima è di Eleonora, ha scritto lunedì, il giorno dopo Spello. “Ho trentatre anni”, dice, “e avevo deciso di non votare più per nessun politico, era delusa da tutto e da tutti. Grazie per avermi emozionato, per aver capito che bisogna cambiare e fare qualcosa per migliorare l’Italia. Spero tu abbia il coraggio di candidare persone semplici e oneste, del popolo, dell’Italia che oggi soffre ma va avanti. Basta pensare solo a vincere, e al valore del potere e del denaro”.
La seconda e-mail è di Massimiliano, non dice quanti anni ha, però si capisce che ha percorso una strada comune a una parte di noi, ma che non era sicuro di volerne fare ancora. “Qualche mese fa”, dice Massimiliano, “non ero sicuro che la scelta di creare il Partito democratico fosse la cosa più giusta da fare. Alla luce dei fatti devo dire che la scelta è stata lungimirante e voglio esprimere il più pieno appoggio alla volontà di presentarsi da soli alle elezioni. Chiarezza e rispetto degli impegni, e forza di prendere decisioni, sono l’unica strada per portare l’Italia verso un futuro migliore. E i nostri litigiosi “cugini” forse capiranno che litigare ogni giorno per una delle 10 mila cose su cui è necessario prendere una decisione serve solo a consegnare il Paese in mano alla destra”.
La terza lettera è del signor Francesco. E’ un po’ più formale, mi dà del lei, ma arriva dritto al cuore delle cose: “Sono un cittadino nato nel 1945”, dice, “e da quando voto (ho annullato le schede alle ultime elezioni) ho sempre votato a destra. Credo che per cambiare le cose sia necessario avere la forza, come lei sembra intenzionato a fare, di rompere con i vecchi schemi. Con il mio voto la delegherò a rappresentarmi, augurandomi di aver fatto la cosa giusta per me, per i miei figli e per quel Paese che spero possa finalmente diventare l’Italia”.
Ho citato queste lettere per ripetere qualcosa in cui credo.
L’Italia non è un Paese diviso da una cortina di ferro. Gli italiani cercano la soluzione più giusta. Quella che sentono corrispondere meglio al bisogno diffuso nel Paese.
Oggi, mi pare, tutti gli italiani vogliono meno frammentazione, meno rissosità, meno instabilità, meno passato.
L’Italia ha voglia, come altri grandi paesi europei, di tornare a correre e a sperare.
A Spello ho fatto riferimento allo sguardo fiducioso dell’Italia che rinasceva dalle macerie della guerra voluta dal fascismo. E’ l’Italia di quei meravigliosi nostri padri e nonni, che hanno faticato, hanno sofferto, ma hanno saputo produrre, intraprendere, studiare, creare.
E’ l’Italia viva, che ci ha fatto grandi.E’ l’Italia viva, che deve prendere il posto dell’Italia stanca di questi quindici anni.
A tutti voi voglio dire di avere fiducia, di lavorare con serenità, e persino con allegria.Abbiamo bisogno solamente di rassicurare gli italiani.
Una nuova stagione è cominciata. Un nuovo tempo si affaccia. Una nuova Italia si può fare.
Il discorso di Romano Prodi
Care democratiche e cari democratici
“la pazienza, ecco un rimprovero che sovente ci rivolgono nel nostro lavoro politico, come se la pazienza significasse mancanza di volontà……. come se la pazienza non fosse la virtù più necessaria al metodo democratico.
Questa frase non è mia. È di Alcide De Gasperi, del 20 novembre 1948. Sessant’anni fa. Essa mi sembra ancora adatta per oggi, anche se la frenesia della campagna elettorale non si concilia facilmente con il concetto di pazienza.
Credo invece che questo sia l’approccio giusto con il quale aprire questa nostra importante assemblea. Un approccio che dovremo conservare quando, dopo le elezioni, potremo tornare alla guida del Paese. Una pazienza che abbiamo esercitato nel perseguire il nostro obiettivo fin dal 1995. Una pazienza messa alla prova in due esperienze di governo. Essa fa parte, intrinsecamente, del progetto e dell’idea che ci hanno unito, che ci hanno portato fin qui. Il progetto di una grande forza di centrosinistra.
Una forza che fa appello alla maggioranza del nostro Paese.
Una forza che affronta con serietà, con uno spirito nuovo e con idee nuove i problemi dell’Italia: il Partito Democratico.
Il contributo di innovazione del Partito democratico nella politica italiana è enorme: dalle primarie fino alla costruzione dal basso di un vero partito, abbiamo introdotto una ventata di freschezza e di novità che in Italia non si era mai vista.
Oggi sono qui di fianco a Walter e a tutti voi per rispondere alle domande che la difficile realtà internazionale e la crisi del nostro sistema politico ci pongono.
Abbiamo lavorato in questi anni per mettere insieme culture politiche che affondano le loro radici in una storia diversa ma che fanno riferimento ad un terreno comune: quello del riformismo. Il nostro è un riformismo che affonda le proprie radici nella pace e nell’Europa. Un’Europa unita che non si esaurisce certo nel rispetto dei parametri di Maastricht.
Essere europei significa infatti lavorare per una democrazia matura, una democrazia dell’alternanza. Una democrazia in cui autorità non significa autoritarismo, ma capacità e potere di prendere le necessarie decisioni.
Una democrazia in cui le nuove generazioni si possano riconoscere nelle maestà della legge come nell’esempio dei genitori, degli insegnanti e dei politici che ci rappresentano.
Una democrazia che trova la propria forza soprattutto nell’interpretare il nuovo e nel costruire il futuro.
Questa democrazia e questo riformismo ci orientano e ci guidano anche nelle scelte economiche, che oggi debbono fare fronte alle sfide della globalizzazione e di una nuova concorrenza.
Queste sono sfide che si vincono solo col cambiamento che, nella società italiana significa rompere le incrostazioni e i privilegi che da tempo ne hanno impedito progresso, sviluppo ed equità.
Il nostro riformismo si fonda perciò sulla ricerca del nuovo e sulla promozione del cambiamento, per riprendere con vigore la via della crescita economica e sociale del Paese.
Noi tutti abbiamo il dovere di non voltarci indietro di fronte alle nuove sfide nazionali e internazionali.Un dovere che chiama in gioco la politica, le istituzioni, le comunità locali e i singoli cittadini.
Il nostro riformismo deve essere quindi proiettato verso il futuro, ma non può non fondarsi sulle grandi virtù della libertà, della tolleranza, del dialogo e del confronto, virtù che rappresentano i punti più alti della nostra storia e della nostra memoria.
E queste virtù debbono guidare tutti i comportamenti individuali e collettivi della nostra società a partire dal delicato rapporto fra cattolici e laici.
Chi, come me, si è formato nel clima del Concilio Vaticano II, dava per superata, per quasi risolta la questione della laicità.
Vedo invece riemergere il conflitto sulla laicità con forza, quasi con violenza.
È importante interrogarsi sul perché, senza schematismi o strumentalizzazioni.
E soprattutto è necessario rivisitare in profondità il rapporto tra una costruzione statale ormai secolarizzata e l’emergere di nuovi fenomeni religiosi.
Non ci sono solo gli integralismi, vi sono anche nuove autentiche domande e inedite sfide etiche che meritano nuove risposte.
In Italia troppo spesso crediamo di essere di fronte a un problema non componibile. Ad uno scontro inevitabile.
Noi non siamo all’inizio della storia: ancora di recente il tema è stato affrontato positivamente, anche a livello europeo.
Il Trattato di Lisbona ha riconfermato integralmente il precedente articolo 52 del Trattato Costituzionale europeo: uno dei testi più avanzati in tema di dialogo aperto, trasparente e regolare tra le comunità religiose, gli Stati e l’Unione.
In esso l’Europa riconosce per la prima volta l’identità e il contributo specifico delle chiese e delle comunità religiose.
Ho lavorato molto, insieme a Giuliano Amato, perché quell’articolo fosse scritto e approvato. L’ho voluto perché ero e sono convinto della necessità di riconoscere uno spazio pubblico alla dimensione religiosa.
Perché ero e sono convinto che la laicità sia un luogo di comunicazione positivo tra diverse tradizioni spirituali e la Nazione.
Perché ero e sono convinto che il rapporto tra lo Stato e le comunità religiose debba essere improntato al dialogo e non a una neutralità negativa o alla reciproca indifferenza.
Questa è la mia laicità.
Allora mi chiedo perché, da più parti, in questi anni si è generato e si continua ad alimentare un clima di scontro tra laici e cattolici, evocando fantasmi del passato, quando la nostra strada, il nostro futuro è quello di essere necessariamente e positivamente assieme. Non ho risposta. So solo che ormai da alcuni anni si procede nella direzione sbagliata.
Assisto infatti, con tanta preoccupazione, al moltiplicarsi di atteggiamenti negativi, che occupano entrambi gli schieramenti politici.
Da una parte si fa strada la strategia dell’elogio e dell’ossequio acritico e formale alle autorità religiose.
Dall’altra vedo la volontà di non affrontare i problemi che dividono la nostra società, solo per non pagarne il costo politico.
Né l’una né l’altra scelta consentono una convivenza matura tra laici e cattolici.
Anzi, sia l’una che l’altra contengono di fatto la volontà di rendere irrilevante il contributo di una ispirazione religiosa, del quale contributo anche lo sviluppo della laicità ha bisogno. Unità, laicità, modernità. Da questi concetti siamo partiti per disegnare l’Italia che vogliamo.
Oggi, questo disegno è ancora abbozzato, troppo lontano dal quadro originale che avevamo in mente. Ci troviamo ancora a combattere con uno scarso dinamismo della nostra società. Una società dove, colpevolmente, manca ancora una seria cultura che premi le capacità, dove il corporativismo è sempre presente, dove pochi vogliono rischiare.
Non dimentichiamo però che le nostre potenzialità sono enormi: noi rappresentiamo una delle principali forze dell’occidente.
Non ci aspetta un ineluttabile destino di declino, come molti hanno sciaguratamente scritto.
I nostri prodotti sono presenti su tutti i mercati del mondo e, anzi, in questo ultimo anno, questa presenza è aumentata in maniera significativa.
Noi dobbiamo saper mettere a punto le nostre potenzialità. E lo possiamo fare grazie alle straordinarie risorse che l’Italia ci offre: eccellenze in campo produttivo, tecnologico, artistico, ambientale, culturale.
E soprattutto risorse umane, donne, uomini, giovani a cui dobbiamo solo fornire gli strumenti per costruire un’Italia migliore e più moderna.
Già due volte gli italiani hanno scelto di affidarsi a noi per affrontare e vincere queste sfide.
Abbiamo vinto le elezioni nel 1996 e, di nuovo, dieci anni dopo, abbiamo vinto nel 2006.
In entrambe le occasioni non abbiamo sconfitto solo lo schieramento e il candidato che si opponeva a noi.
Abbiamo sconfitto un modo inaccettabile di intendere la politica, di intendere il rapporto tra governanti e cittadini, tra democrazia e informazione.
Abbiamo combattuto e sconfitto una politica di isolamento in Europa, una linea di politica estera che era ed è lontana dal nostro concetto di pace.
Per questo motivo siamo tornati a casa dall’IRAQ.
Per due volte abbiamo vinto.
Ma questo non è bastato a risolvere i nostri problemi.
Oggi, però, sono più sereno di qualche anno fa.
Lo sono perché, oltre alla forza del progetto, abbiamo l’energia che ci viene dall’aver costruito un soggetto politico.
Il Partito Democratico. E se oggi siamo qui tutti uniti molto dobbiamo al contributo e alla generosità di Piero Fassino e Francesco Rutelli.
Noi, del Partito Democratico, siamo una forza che ha l’ambizione e le carte in regola per governare bene questo Paese.
La responsabilità di governare noi democratici (ed io in particolare) l’abbiamo assunta tutta, fino in fondo, fino alla fine.
Credo però che l’importanza della funzione di governo e la grandezza della responsabilità che esso comporta sia oggi presente più nella società, tra i cittadini, che nel comportamento di una parte della classe politica. Noi abbiamo perciò il dovere di raccogliere questa domanda di governo e questa consapevolezza della nostra società.
Bisogna tornare al significato vero della parola “politica”; che significa “agire per cambiare le cose”.
È un’idea che Walter ed io abbiamo portato avanti fin dai tempi del pullman e che è proseguita fino alle primarie: quelle del 2005 e quelle del 2007. E voi tutti, qui, ne siete testimoni. Proprio per questa convinzione credo che il Partito Democratico sia l’evoluzione dello spirito originario dell’Ulivo.
Se traccio un bilancio di questi ultimi due anni di governo, vedo benissimo le difficoltà e le contraddizioni di fronte alle quali ci siamo trovati, gli interessi costituiti che si sono opposti alla nostra azione.
Gli interessi di quelle imprese e di quelle categorie che vogliono operare al riparo della concorrenza, di quella finanza che pretende di farsi guida e sostituirsi all’economia reale.
Gli interessi di chi pensa che il cambiamento e i sacrifici siano utili, solo se ad affrontarli sono gli altri.
E abbiamo anche dovuto affrontare la difficoltà di rompere la barriera tra chi è dentro i sistemi di tutela e chi ne è fuori.
Abbiamo combattuto contro una cultura che legittima e incoraggia l’evasione fiscale.
Abbiamo infine combattuto quegli interessi clientelari e mafiosi che imprigionano e negano il futuro del nostro Mezzogiorno.
Tutti questi interessi traggono forza dalla debolezza del sistema politico. E’ la nostra debolezza che li fa diventare “poteri forti”.
In questi anni, attaccando il governo di centrosinistra è stata attaccata soprattutto l’idea di cambiamento.
Un cambiamento che, dobbiamo ammetterlo, non siamo stati in grado di esprimere compiutamente, per le difficoltà e gli ostacoli che tutti conosciamo.
A causa, in primo luogo, dell’orribile legge elettorale imposta dal centrodestra alla vigilia delle elezioni del 2006 per colpire l’Unione e impedirci di vincere con ampia maggioranza.
Mi sento quindi di rivendicare con forza l’azione del nostro governo.
Ci siamo sempre mossi in coerenza con il nostro progetto.
Abbiamo portato avanti una precisa linea politica.
Insieme al necessario e indispensabile risanamento abbiamo fatto crescere il Paese.
Sul piano internazionale, dal Libano al Kossovo, all’Afghanistan, abbiamo assunto tutte le responsabilità che competono a un grande paese come l’Italia. Ai nostri soldati che per questo hanno dato la vita rivolgo un omaggio commosso.
Con la crescita, abbiamo iniziato a ridurre le disuguaglianze e le disparità che nei precedenti cinque anni si erano accentuate in modo intollerabile.
E’ motivo di profondo orgoglio essere riusciti, nel momento stesso in cui risanavamo i conti dello Stato, a redistribuire un punto percentuale di Pil (15 miliardi di Euro) alle fasce più deboli della società. Una redistribuzione resa possibile da quei successi nella lotta all’evasione fiscale e nella diminuzione della spesa pubblica, che ci vengono oggi finalmente riconosciuti da tutti, a partire dall’Unione Europea.
Quando parlo di redistribuzione, mi riferisco all’aumento delle pensioni basse, all’assegno per i più poveri e, ancora, agli interventi sulla casa, con gli sgravi per l’Ici e per gli affitti.
E certo si inseriscono nel solco di questa missione di sostegno alla crescita, gli sgravi alle imprese per ridurne i costi e aumentarne la capacità di innovare e di creare occupazione.
E l’aumento della nostra dotazione di infrastrutture, alimentate da risorse reali e non inventate.
E, ancora, l’intervento serio sui costi della politica con il taglio di spese e privilegi.
E la vera lotta alla precarietà, portata avanti favorendo una flessibilità positiva, con vantaggi per chi assume lavoratori con contratti a tempo indeterminato.
E, infine, i provvedimenti per la sicurezza sul lavoro e per l’emersione del lavoro nero (190.000 lavoratori edili emersi dalla schiavitù del lavoro nero).
Non spetta certo a me dare dei voti su quanto abbiamo fatto.
Tuttavia in serena coscienza posso dire che nelle condizione date, siamo stati bravi. Forse, molto bravi.
Certo siamo rimasti sotto il livello delle aspettative che il Paese aveva verso di noi.
Questo perché il nostro progetto era un progetto di legislatura e il nostro percorso è stato interrotto ad un terzo del cammino.
Con queste nuove elezioni siamo chiamati a riprenderlo con vigore e a rilanciarlo in forme nuove.
Da parte mia ho già annunciato che non mi ricandiderò al Parlamento. Lo faccio perché ritengo di avere compiutamente svolto il compito che mi ero proposto. Lo faccio perché anche voi in piena libertà possiate svolgere il vostro compito. Lo faccio perché la buona politica esige il rinnovamento. Il rinnovamento delle persone e delle generazioni.
Ma nel nostro Partito Democratico io ci sarò ancora. Sarò ancora con voi, sarò ancora insieme a voi.
Care democratiche, Cari democratici,
Abbiamo pagato in questi anni la frammentazione e l’immaturità di quella che Arturo Parisi chiama “democrazia governante”.
Ma la lezione di questi ultimi anni è che, per riformare il sistema politico, non ci si può affidare alla sola ingegneria istituzionale.
La soluzione può venire soltanto dalla politica.
E’ per questo che, vissuta l’esperienza di questa legislatura, abbiamo scelto di costruire un soggetto forte e unito: il Partito Democratico.
Un Partito Democratico per superare le divisioni che hanno lacerato l’Italia.
Un Partito Democratico per unire e guidare i riformisti italiani.
Un Partito Democratico che è il compimento del progetto che Walter ed io lanciammo con l’Ulivo.Per tutto questo, insieme a tutti voi, anch’io oggi vi dico che
L’Italia che vogliamo (caro Walter) si può fare.
Il discorso di Walter Veltroni
“Papà era in Afghanistan per portare la pace e non è la prima volta che andava all’estero: tutti i giorni ci mandava le foto di quello che faceva con i bambini nelle scuole che ricostruivano. Aveva scelto di far parte di un reparto dell’Esercito che si occupa di ricostruire, ed era orgoglioso di quello che faceva. Credeva fino in fondo al suo lavoro, mettendo al servizio dello Stato e della patria la sua vita”.
Sono le parole con le quali una ragazza di diciotto anni ha ricordato suo padre.
Giovanni Pezzulo aveva 45 anni. Insieme ad alcuni colleghi, stava distribuendo viveri e medicinali alla popolazione, non lontano da Kabul. Gli hanno sparato a tradimento, lo hanno colpito a morte e probabilmente hanno esultato, i guerriglieri talebani che hanno ferito, per fortuna in modo lieve, anche un altro giovane militare italiano, Enrico Mercuri, di 31 anni.
A lui vanno i nostri auguri di rapida guarigione. Alla moglie e a Giusy, la figlia di Giovanni, il commosso, riconoscente abbraccio di noi tutti.
Giovanni Pezzulo ha onorato la bandiera italiana, sotto la quale serviva, su mandato Onu, le popolazioni civili dell’Afghanistan. Non era lì per fare la guerra. Era lì per contribuire a un’impresa difficile, ma necessaria: pacificare, stabilizzare, democratizzare un paese che era diventato – e non deve tornare ad essere – un santuario del terrorismo fondamentalista internazionale.
A Giovanni, agli altri nostri caduti in Afghanistan in questi anni, a tutte le donne e gli uomini impegnati nelle nostre missioni militari di pace, va la gratitudine di ogni italiano.
La strada verso la pace è lunga e impervia, lo sappiamo bene. Con Romano Prodi, Massimo D’Alema, Arturo Parisi, in questi anni abbiamo lavorato in Europa, nella Nato e all’Onu, per un salto di qualità nella conduzione politica della questione afgana. Continueremo a farlo. E’ ancora più necessario e urgente, con l’aggravarsi della crisi del Pakistan.
Ma lavorare per una soluzione politica non significa ritirare unilateralmente la nostra presenza militare.
E’ quanto ha chiesto in Parlamento, proprio in questi giorni, la Sinistra Arcobaleno, che ha votato contro il decreto di rinnovo di tutte le nostre missioni militari internazionali.
Noi consideriamo quel voto un grave errore. In via di fatto, perché non si vede come il ritiro unilaterale dell’Italia possa aiutare una svolta politica della questione afgana. E in via di principio, perché il ripudio della guerra, solennemente affermato dalla nostra Carta Costituzionale, non ha nulla a che vedere con un’opzione neutralista o isolazionista.
L’Italia non può restare indifferente rispetto alla qualità dell’ordine mondiale. L’Italia deve intervenire attivamente nel contesto internazionale. Con un vincolo preciso: la pace può essere perseguita solo attraverso il rafforzamento del multilateralismo e non imboccando la scorciatoia senza uscita delle politiche e degli interventi unilaterali.
Per questa ragione siamo venuti via dall’Iraq: perché quella missione era nata all’insegna dell’ambiguità su questo decisivo discrimine politico e di principio.
Per questa stessa ragione, abbiamo invece confermato e confermiamo i nostri impegni in Afghanistan, in Libano e nei Balcani, che non solo hanno una ineccepibile legittimazione internazionale, ma sono espressione di quel multilateralismo efficace che è la sola via per la gestione dei conflitti nel mondo nuovo che sta sorgendo attorno a noi.
Un mondo più grande, segnato dall’affacciarsi di miliardi di donne e di uomini a lungo esclusi dallo sviluppo mondiale. La Cina e l’India, il Brasile e la nuova Russia, rinata dalle ceneri dell’Unione Sovietica, insieme al vasto mondo arabo-islamico, stanno mutando in modo radicale la natura stessa della globalizzazione.
Solo pochi anni fa, si pensava alla globalizzazione come alla possibile forzata occidentalizzazione del mondo. Invece il mondo, sempre più, sta diventando multipolare: con le sue straordinarie opportunità di umanizzazione e con gli altrettanto enormi rischi per la stabilità finanziaria e la giustizia sociale, per l’equilibrio ambientale e per la pace.
L’ampliarsi degli orizzonti del mondo rende ancora più attuali le quattro direttrici storiche della nostra politica estera. E rende ancora più evidente e necessario il principio che è la forza di ogni Paese: la priorità assoluta sono gli interessi nazionali, non quelli di parte.
Si potrà e si dovrà, se necessario, dissentire tra maggioranza e opposizione su questa o quella scelta concreta. E’ avvenuto in passato e altrove, è possibile che continui a succedere. Ma un grande Paese, una grande democrazia come noi vogliamo essere, non è tale senza una visione condivisa della collocazione dell’Italia nel mondo e del nostro, comune interesse nazionale.
Il primo pilastro della nostra politica estera è, continua ad essere, la partecipazione attiva dell’Italia al processo di integrazione politica dell’Europa: l’Europa massima possibile, non quella minima indispensabile, l’Europa come risposta a chi crede che la globalizzazione sia ingovernabile.
Noi facciamo nostro e chiediamo alle altre forze politiche di fare altrettanto, l’appello del Presidente Napolitano, al quale rivolgiamo da qui il nostro saluto più affettuoso, per una sollecita ratifica parlamentare del trattato di Lisbona.
Nella prossima legislatura, le nostre priorità in campo europeo saranno una solida politica di sicurezza comune, una politica dell’energia coerente con la strategia dell’abbattimento delle emissioni e dello sviluppo delle fonti rinnovabili, una rappresentanza unitaria sui mercati esterni, una politica della ricerca e delle reti europee da finanziarsi anche mediante l’emissione di euro-bond.
Il secondo pilastro della nostra politica estera è il Mediterraneo, che dopo secoli di marginalità ha oggi davanti a sé la straordinaria opportunità di proporsi come l’hub politico ed economico mondiale di questo secolo. Un hub che collega Europa e Nord Africa, Caspio e area del Golfo, a sua volta porta per l’Asia. Un hub per le merci e per l’energia, per le migrazioni e il dialogo religioso.
Essere parte e perno di un forte circuito “euro-mediterraneo” è per l’Italia la condizione principale per il rilancio del Mezzogiorno, per rovesciare finalmente la prospettiva e fare del nostro Sud non più il principale problema ma la più importante risorsa sottoutilizzata del Paese.
Il terzo pilastro è il rafforzamento dell’amicizia e della collaborazione, nazionale ed europea, con gli Stati Uniti. Amicizia e collaborazione fondate ovviamente sull’autonomia, e non sulla dipendenza. Sul legame che la storia ci ha consegnato, e sui compiti che il presente ci assegna.
Concorrere alla costruzione di uno spazio comune transatlantico è fondamentale nel campo tradizionale della politica estera e di difesa. Ed è decisivo in campo economico, dove serve una cooperazione che rafforzi il governo della globalizzazione e della liberalizzazione dei mercati, e diminuisca il rischio di crescenti protezionismi.
Europa e Stati Uniti assieme rendono tutto più facile e possibile. La partnership atlantica è la base migliore per un nuovo dialogo con il mondo arabo e islamico. E’ un’opportunità per il governo delle crisi, a cominciare da quella israelo-palestinese. E’ la chiave per la piena integrazione dei Balcani occidentali nel sistema europeo, e per un approccio positivo nei confronti delle nuove potenze emergenti e dei rischi della proliferazione nucleare e del riarmo.
Il quarto pilastro di una politica estera che auspichiamo condivisa dal più ampio arco di forze parlamentari è il multilateralismo, e in particolare il sostegno alle Nazioni Unite, al loro imprescindibile ruolo, alla loro necessaria autoriforma.
Dopo il successo dell’iniziativa sulla moratoria delle esecuzioni capitali, l’Italia deve continuare a battersi per la tutela dei diritti umani e per l’affermazione e il rispetto della legalità internazionale, tramite la Corte di Giustizia e il Tribunale Penale Internazionale.
E io continuo a credere che faremmo un torto alla nostra civiltà, oltre che al futuro stesso dell’umanità, se non assumessimo in modo più stringente e vincolante la lotta alla povertà e alla fame e il raggiungimento degli altri Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
Non è più solo una questione di quantità dell’impegno, di risorse da destinare agli aiuti allo sviluppo, anche se fa male constatare che l’Italia, pur invertendo al tendenza degli anni precedenti, è ferma allo 0,20 per cento del Pil, e che solo Grecia e Stati Uniti fanno meno di noi. E’ anche una questione di qualità e di efficacia, di come gli aiuti vengono impiegati. Anche per questo nella prossima legislatura dovremo provvedere una sollecita approvazione della legge di riforma della cooperazione.
Lo dobbiamo anche a quei milioni di italiani – volontari, missionari, associazioni, Ong – che si spendono per dare speranza e sostegno all’Africa, per migliorare le condizioni di vita nei paesi in via di sviluppo.
Sono il ritratto migliore dell’Italia. Sono l’esempio delle energie che abbiamo, del tesoro umano di cui disponiamo. Dobbiamo averne cura, sostenerlo, farlo crescere. Non lasciamo che questa ricchezza venga mortificata, fino ad esaurirsi pian piano.
L'Italia deve muoversi, deve fare appello alle grandi risorse intellettuali e morali di cui dispone, se vuole giocare da protagonista nel mondo che cambia.
L'Italia deve lasciarsi alle spalle il passato, e scegliere il nuovo.
Deve smettere di accontentarsi, e volere di più: più mobilità sociale, più spazio al merito e ai talenti e meno chiusure corporative; più legalità e meno furbizia; più ricerca, scienza, innovazione tecnologica e meno divisioni e steccati ideologici; più fiducia nel futuro e in se stessi, e meno paura del nuovo; più potere di decisione alla democrazia, e meno poteri di veto.
Si può fare. Le risorse per riuscire ci sono. Sta già succedendo. In Italia due-tremila imprese di media dimensione, ciascuna delle quali è al centro di una costellazione di decine, talvolta centinaia di imprese più piccole, si sono ristrutturate, hanno tirato la cinghia, hanno sofferto, si sono internazionalizzate; e ora si sono riproposte da leader nell'economia globale.
E’ merito loro se nel 2007 le nostre esportazioni, in valore, sono tornate finalmente a crescere. Quando si dice “imprese”, si dice lavoratori e imprenditori, insieme.
In Italia, migliaia di giovani calabresi hanno sfidato la mafia: "ora uccideteci tutti" hanno gridato ai boss della criminalità organizzata.
In Italia, in Sicilia, ci sono imprenditori, ci sono industriali, commercianti e artigiani, che hanno deciso di rifiutarsi di pagare il pizzo e di espellere dalle loro associazioni chi continua a pagarlo.
In Italia, ci sono stati tre milioni e mezzo di cittadini che si sono messi in fila per far nascere il Partito Democratico. E con la loro partecipazione, con la loro passione, hanno dimostrato cos’è la buona politica, hanno fatto vedere dov’è che passa il cambiamento.
Le potenzialità dunque ci sono, e sono grandi. Ma senza un progetto, sono destinate a rimanere tali.
Il primo dei problemi dell’Italia è che da troppi anni cresciamo troppo poco e comunque sempre meno degli altri.
Ancora tra il '91 e il '98, la produttività totale dei fattori cresceva, in Italia, ad un ritmo di poco superiore a quello medio dei principali Paesi europei.
Dal '98 al 2000, è cresciuta meno che in Francia e in Germania.
Dal 2000 al 2006, è addirittura diminuita, mentre Germania e Francia continuavano a farla crescere a buon ritmo.
Abbiamo così accumulato, dai primi anni '90, un ritardo di sviluppo di ben 11 punti di PIL rispetto all'area dell'Euro. In moneta, più di 170 miliardi di Euro all'anno.
Se non invertiamo questa tendenza, l’Italia rischia di perdersi.
Il programma del Partito Democratico assume quindi l'aumento della ricchezza nazionale come obiettivo principale della sua strategia politica e di governo.
Anche perché, senza crescita, non c'è politica redistributiva che tenga.
Detto con ancora più chiarezza: senza crescita, senza più ricchezza, non c’è giustizia sociale.
Se l’economia e le imprese vanno male, ogni obiettivo di equità sociale e di creazione di opportunità si allontana.
Lo dimostra il fatto che oggi l’Italia, insieme ad un problema di crescita, ha anche un grave problema di disuguaglianza e immobilità sociale: si è bloccato l'ascensore sociale che consente ai giovani più impegnati, intelligenti e preparati di salire quanto vorrebbero e meriterebbero.
L'Italia è tra i paesi più diseguali d’Europa. In Italia, il 20 per cento più ricco della popolazione possiede quasi sei volte il reddito del 20 per cento più povero. Il rapporto tra reddito e patrimonio è uno a sette, il più alto tra i paesi sviluppati.
L'indice di povertà relativa segnala che il 19 per cento della popolazione è in grave disagio economico. In Svezia questa percentuale è al 9, in Germania e Francia al 13.
Come non bastasse, questa situazione riguarda più le donne dei maschi. Più i giovani degli adulti.
Ciò che è più grave: in Italia, a differenza ad esempio di quanto avviene in Spagna, nei paesi del Nord o in Olanda, il tasso di disuguaglianza, dopo l’intervento pubblico, invece di scendere resta pressoché invariato.
Il programma del Partito Democratico si propone quindi di cambiare profondamente qualità e quantità dell'intervento pubblico, per renderlo capace di aiutare davvero i più poveri ad uscire con le loro gambe dalla situazione di disagio in cui si trovano; di favorire il rapido innalzamento della partecipazione dei giovani e delle donne – specie nel Sud – alle forze di lavoro; di chiamare di più il mercato, secondo un principio di sussidiarietà, a risolvere problemi sociali e ambientali.
Non si possono infatti affrontare in modo efficace i problemi di uguaglianza, se non facendo leva sulla libertà delle persone, ampliando le possibilità per ciascuno di perseguire il proprio disegno di vita, compatibilmente con l'eguale diritto altrui.
L'Italia non ha un problema di libertà, nei termini classici in cui questo problema viene solitamente posto: libertà di manifestazione del pensiero, di associazione, di riunione e simili.
Ma esiste nel nostro Paese un problema di libertà con riferimento a quello che la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti chiama "diritto alla ricerca della felicità": il diritto di ciascuno a perseguire liberamente il proprio disegno di vita, compatibilmente con l'eguale diritto altrui.
Per fare solo alcuni esempi: una giovane mamma desidera dedicare alcuni anni alla cura dei suoi bimbi, per poi ricominciare a lavorare; in Italia, praticamente, non può.
Una pensionata, un pensionato, desidera svolgere un'attività lavorativa part-time, legale e regolare anche fiscalmente; in Italia, praticamente, non può.
Un giovane che voglia accedere ad una professione, senza avere il padre che già la esercita, in Italia quasi sempre si trova davanti ad un muro impossibile da scavalcare.
Se il capitalismo italiano viene definito "relazionale", è per la diffusione di opachi patti di sindacato e strutture piramidali nell'assetto proprietario di molti grandi gruppi, che ne ostacolano la contendibilità, impedendo al mercato di esercitare la sua funzione dinamica e selettiva.
E’ ora di cambiare, di voltare pagina, di liberare la società italiana.
La regolamentazione pubblica definisce lo spazio in cui tutte le libertà, anche quelle private, sono rese possibili ed effettive. Anche per questo, però, essa è chiamata a giustificare il perché di divieti, ostacoli, strettoie che si frappongono fra la libertà individuale e l'effettivo perseguimento del progetto di vita di ciascuno.
Quali di queste giustificazioni siano accettabili è questione che investe la politica, le scelte collettive. Ma è giusto rimuovere quei vincoli – e sono tanti – la cui giustificazione ormai non è più sostenibile.
Meno veti, meno burocrazia, meno conservatorismi.Più crescita, più uguaglianza, più libertà.
Sono queste le tre stelle fisse che orientano il programma del Partito Democratico per il rinnovamento e il rilancio dell’economia e della società italiana.
I Governi di centrosinistra che hanno guidato l'Italia tra il '96 e il 2001 e tra il 2006 e il 2008 hanno creato le condizioni che rendono oggi possibile e realistico un programma di svolta riformatrice: prima con la stabilizzazione economico-finanziaria (Euro), e poi con i primi, importanti successi nella lotta all'evasione fiscale e l'avvio di un migliore controllo della spesa pubblica.
Ora è finalmente possibile, e allo stesso tempo necessario, chiamare a raccolta le forze sociali – le organizzazioni sindacali, la Confindustria, ma anche le associazioni della piccola impresa, del lavoro autonomo, delle professioni, del terzo settore – per una nuova stagione di concertazione, finalizzata allo sviluppo. Però non dimentichiamolo mai: la concertazione è un mezzo, non un fine.
Il Patto del Luglio del '93 aveva una finalità precisa: la stabilizzazione economico-finanziaria. Risultò decisivo per conseguirla, con l'Euro.
Oggi abbiamo bisogno di un nuovo modello, con un nuovo obiettivo: la crescita. L’Italia deve crescere. Deve incrementare la produttività totale dei fattori e crescere.
In questo nuovo contesto, tutti devono cambiare comportamenti e capacità di rappresentanza. La politica, certo, e per prima. Ma anche le forze sociali, per le quali diventa urgente una nuova assunzione di responsabilità, in nome dell’interesse generale del Paese, e una autoriforma delle regole della rappresentanza.
Più crescita, più uguaglianza, più libertà.
Nei prossimi giorni il Coordinamento politico discuterà e approverà un documento programmatico che tradurrà questi principi in una organica proposta al Paese.
Qui mi limiterò ad indicare dodici grandi obiettivi, dodici proposte innovative che possono cambiare l’Italia.
1. Primo: modernizzare l’Italia significa scegliere come priorità le infrastrutture e la qualità ambientale.
Partiamo da qui, da un programma straordinario che si proponga di colmare il grave ritardo che l’Italia ha accumulato.
Il Paese ha bisogno di infrastrutture e servizi che oggi sono ostacolati più da incapacità di decisione che da carenza di risorse finanziarie.
Ecco la novità del nostro ambientalismo del fare: sì al coinvolgimento, alla partecipazione, alla consultazione dei cittadini in tutte le fasi di localizzazione, progettazione e costruzione; ma basta con l'ambientalismo che cavalca ogni movimento di protesta del tipo Nimby, “non nel mio giardino”, e impedisce di fare le infrastrutture necessarie al Paese.
Noi riformeremo la normativa di valutazione ambientale delle opere, con l'eliminazione dei tre passaggi attuali e la concentrazione in un’unica procedura di autorizzazione, da concludere in tre mesi. Una volta assunta la decisione, deve essere previsto un divieto di revoca o l'applicazione di sanzioni pecuniarie elevate con responsabilità erariale a carico degli amministratori pubblici interessati.
La priorità va data agli impianti per produrre energia pulita, ai rigassificatori indispensabili per liberalizzare e diversificare l'approvvigionamento di metano, ai termovalorizzatori e agli altri impianti per il trattamento dei rifiuti, alla manutenzione ordinaria e straordinaria della rete idrica.
E poi al trasporto ferroviario. L’Alta Velocità è il più grande investimento infrastrutturale in corso nel nostro Paese: va completato e utilizzato appieno. Il completamento della TAV metterà a disposizione del trasporto regionale un aumento del 50 per cento delle tratte ferroviarie. Noi le useremo per ridurre il traffico attorno alle grandi città e per dare ai pendolari un servizio finalmente decente.
Dotare il Paese delle necessarie infrastrutture non solo non è in contraddizione con l’obiettivo di tutelare e valorizzare l’ambiente, ma ne è il presupposto. Allo stesso modo, le tecnologie per l'ambiente saranno nei prossimi vent'anni ciò che il comparto della comunicazione è stato nei venti precedenti: la forza trainante dello sviluppo e di un più vasto cambiamento economico e sociale.
Produrre il 20 per cento di energia con il sole e con il vento significa risparmiare miliardi di euro sulle importazioni di petrolio; migliorare l'efficienza energetica significa più competitività per le imprese e risparmio per le famiglie.
E la nostra proposta è un piano per realizzare in dieci anni la trasformazione delle fonti principali di riscaldamento degli edifici, privati e pubblici, in modo da creare al tempo stesso un gigantesco risparmio energetico e un grande volano di crescita economica.
Per anni abbiamo incentivato la rottamazione delle auto. Ora incentiviamo la rottamazione del petrolio.
2. Il secondo grande obiettivo di innovazione è il Mezzogiorno, è la sua crescita, che è poi la crescita dell’Italia.
Gran parte delle politiche per il Mezzogiorno è incentrata sull'utilizzo delle risorse comunitarie. L’efficacia di questa spesa è stata tuttavia spesso deludente, si è assistito alla dispersione dei fondi in una miriade di programmi e si sono così mancate importanti occasioni per utilizzare le risorse in modo da superare i rilevanti gap del Mezzogiorno nelle infrastrutture e nei servizi collettivi.
Si deve quindi procedere a una drastica e veloce revisione dei programmi, e ad un altrettanto drastico accentramento delle risorse su pochi obiettivi, quantificabili e controllabili.
La priorità è quella di portare entro il 2013 la rete delle infrastrutture, a cominciare dal sistema dei trasporti – strade, ferrovie, porti, aeroporti e autostrade del mare – su un livello quantitativo e qualitativo confrontabile con l’Europa sviluppata. E lo stesso vale per servizi essenziali come quelli idrici e ambientali.
Pensiamo alla Sicilia, alla sua collocazione strategica, al suo essere approdo quasi naturale per i traffici commerciali delle economie emergenti dell’area, che fa dell’Isola l’avamposto europeo nel Mediterraneo. Perché questo circuito virtuoso si sviluppi la Sicilia ha bisogno di una rete infrastrutturale che le consenta di diventare davvero, con le altre regioni del nostro Mezzogiorno, la naturale piattaforma logistica per gli scambi di servizi, di beni, di persone, di culture in un’area cruciale del mondo.
3. Terzo grande obiettivo di innovazione è il controllo della dinamica della spesa pubblica. E’ aumentarne la produttività e renderla finalmente quel fattore di sviluppo e di uguaglianza che oggi ancora non è.
Nei cinque anni di governo del centrodestra la spesa corrente primaria è aumentata di due punti e mezzo di PIL. Un'enormità, che spiega da sola il fallimento delle politiche economiche della Casa delle libertà.
In tutto il mondo, la destra liberista ha come slogan “meno Stato più mercato”.
Solo in Italia il centrodestra pensava di poter governare riducendo le tasse e aumentando la spesa.
Alla fine dei cinque anni del governo Berlusconi, la pressione fiscale era stata leggermente ridotta. Peccato però che la spesa corrente primaria, che il centrodestra aveva trovato nel 2000 al 37,3 per cento del PIL sia stata lasciata al 39,9 per cento nel 2005: più 2,6.
Tra minori entrate e maggiori uscite, 3 punti e mezzo di PIL da finanziare: questa è l’eredità che ha trovato il Governo Prodi.
E’ quindi vero che il miglioramento dei conti pubblici, che ha portato alla fuoriuscita dell'Italia dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo in cui era precipitata nel quinquennio 2001-2006, deriva per la parte maggiore da un aumento della pressione fiscale: peraltro, in parte consistente, frutto del successo nella lotta all'evasione fiscale.
Ma non è meno vero, che per la prima volta dopo dieci anni un Governo stava riuscendo a mettere sotto controllo la spesa corrente primaria, che è passata dal 39,9 del 2005 al 39,3 del 2007.
Proprio l’esperienza di questi due anni ci consente di dire credibilmente ai cittadini italiani che nella prossima legislatura, il banco di prova decisivo per il Governo del Partito Democratico è quello riqualificare e ridurre la spesa pubblica. Senza ridurre, anzi facendo gradualmente crescere in rapporto al PIL, la spesa sociale.
Spendere meglio, spendere meno.
Mezzo punto di PIL di spesa corrente primaria in meno nel primo anno, un punto nel secondo e un punto nel terzo: il conseguimento di questo risultato è condizione irrinunciabile per onorare l'altro impegno che assumiamo con i contribuenti italiani, famiglie e imprese: restituire loro, con riduzioni di aliquota e detrazioni, ogni Euro di gettito aggiuntivo, derivante dalla lotta all'evasione fiscale.
Procederemo con innovazioni legislative certo. Ma, soprattutto, con attività di alta amministrazione.
Un maggiore controllo della spesa pubblica è possibile, come dimostrano i dati positivi del 2007. Occorre continuare con tenacia e con rigore.
Noi risparmieremo sugli acquisti di beni e servizi, ricorrendo a grandi piattaforme di acquisto.
Aumenteremo l’efficienza del lavoro pubblico, collegando all’effettiva produttività la dinamica delle retribuzioni, oltre che valutando davvero i dirigenti sulla base del raggiungimento degli obiettivi.
E a proposito di valutazione, è tempo di dare ai cittadini la reale possibilità di giudicare i servizi ricevuti, di fornire indicazioni per il loro miglioramento e di operare per realizzarlo. Non può sempre passare tutto sulla testa delle persone. Questa è una innovazione profonda, per mettere l’Italia sullo stesso piano delle grandi democrazie moderne.
E ancora, per questo: semplificare il nostro barocco sistema amministrativo, ridurre le sovrapposizioni fra uffici, livelli istituzionali, organismi ed enti pubblici, accorpare in un’unica sede provinciale tutti gli uffici periferici dello Stato.
Anche in attesa di una riforma istituzionale più complessiva, che assesti finalmente il Titolo V della Costituzione, cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi Comuni metropolitani, ai quali andranno dati poteri reali in settori importanti come la mobilità.
Utilizzeremo in modo produttivo il grande patrimonio demaniale, con l’accordo di Stato e Comuni, in modo da abbattere contestualmente di qualche punto il debito pubblico, che potrà così scendere più rapidamente al di sotto della soglia del 100 per cento sul PIL.
Libereremo così risorse per almeno un punto di PIL all’anno, attualmente impiegate per pagare interessi sul debito: una posta di bilancio che oggi si mangia quasi la metà dell’intero gettito IRPEF.
Insomma: una politica forte e autorevole, un quadro istituzionale più sereno, un lavoro di lunga lena ma realistico, possono permetterci, nell’arco di pochi anni, di ridurre la percentuale di spesa pubblica sul PIL e, soprattutto, di migliorare la qualità della spesa.
4. Quarto obiettivo, fare quello che non è mai stato fatto e che oggi è possibile fare: ridurre davvero le tasse ai contribuenti leali, che sono tanti, lavoratori dipendenti e autonomi, e che pagano davvero troppo.
Il risanamento della finanza pubblica realizzato negli ultimi due anni, combinato con questo credibile e concreto programma di riduzione e riqualificazione della spesa e con la prosecuzione della lotta all’evasione, permette per il futuro, anche per quello immediato, di programmare una riduzione del carico fiscale.
Per sostenere il potere d’acquisto delle famiglie italiane e affrontare la questione salariale.
Per restituire alle famiglie e alle imprese i frutti della lotta all’evasione e all’elusione.
Per rendere il fisco più amico dello sviluppo delle persone e dell’economia.
Pagare meno, pagare tutti: è questo il terzo grande obiettivo programmatico del Partito Democratico.
Un obiettivo che si traduce, subito, in un incremento della detrazione IRPEF a favore dei lavoratori dipendenti. E dunque in un aumento di salari e stipendi.
La manovra è attuabile in più fasi, in progressiva crescita nel tempo, partendo dai redditi medio-bassi. E può essere usato per portare a regime l'intervento per la restituzione del fiscal-drag: ogni anno, la detrazione aumenta per neutralizzare l'effetto del drenaggio fiscale.
La detrazione può essere utilizzata anche per sperimentare forme di sostegno ai redditi più bassi, come trasferimento a favore dei lavoratori che hanno un reddito così basso da non poter usufruire delle detrazioni di cui pure avrebbero diritto.
Proprio perché abbiamo dimostrato di saper fare la lotta all’evasione fiscale, insieme al controllo della spesa, possiamo essere credibili se ci assumiamo l’impegno, a partire dal 2009, di ridurre gradualmente tutte le aliquote IRPEF: un punto in meno all'anno, per tre anni.
Subito ridurremo invece la pressione fiscale sulla quota di salario da contrattazione di secondo livello: azienda, gruppo, distretto, territorio.
Ridurre le tasse sul salario di produttività è la strada maestra per favorire la crescita e, allo stesso tempo, per redistribuire finalmente un po’ dei vantaggi da aumento della produttività anche a favore dei lavoratori.
Per pagare le tasse, le piccolissime imprese commerciali ed artigiane sopportano esorbitanti costi di regolare tenuta della contabilità. Va dunque significativamente elevato il tetto di 30 mila euro di fatturato per il pagamento a forfait delle diverse imposte e tributi, anche attraverso una differenziazione del tetto stesso per settori e comparti, da concordare con tutte le categorie interessate.
Ad esempio: più alto, fino a 50 mila Euro, per chi produce beni, un po’ più basso per chi produce servizi.
Agli artigiani, ai commercianti, alle piccole imprese in generale voglio dire che semplificheremo drasticamente l’applicazione degli studi di settore per imprese in monocommittenza e contoterzisti, fino a consentire loro la totale fuoriuscita dall'uso di questo strumento.
La revisione degli studi di settore si applicherà all’anno d’imposta in corso e non sarà mai retroattiva.
Abrogheremo la norma che prevede la possibilità di reiterare gli accertamenti.
Daremo maggiore rilevanza alla dimensione territoriale nella definizione degli indicatori utilizzati negli studi.
Potenzieremo la formazione congiunta tra Agenzia delle Entrate e Associazioni di categoria.
5. Il quinto grande obiettivo di innovazione è investire più di quanto mai sia stato fatto sul lavoro delle donne.
Il modello sociale italiano è oggi afflitto da tre gravi patologie: bassi tassi di occupazione femminile, bassa natalità e alti tassi di povertà minorile. Si tratta di un circolo vizioso, che blocca la crescita economica, demografica e “civile” dell’Italia. Che futuro può avere il Mezzogiorno se un quarto dei suoi bambini nasce povero e vive un’infanzia deprivata? Se i suoi quindicenni hanno una preparazione scolastica più simile a quella di Thailandia e Uruguay che a quella della Francia o della Germania, e anche del Trentino e della Lombardia? Che sicurezza economica possono avere le famiglie italiane se la loro maggioranza, soprattutto fra quelle con figli, può contare su un solo percettore di reddito, quasi immancabilmente il maschio adulto?
Per questo noi vogliamo trasformare l’enorme capitale umano femminile inattivo in un “asso” da giocare nella partita dello sviluppo, della competitività, del benessere sociale.
Vogliamo rovesciare il circolo vizioso in un circolo virtuoso. Più donne occupate significa infatti più crescita, più nascite (come dimostra l’esperienza degli altri paesi europei), famiglie più sicure economicamente e più dinamiche e meno minori in povertà.
Per favorire l’occupazione femminile, noi introdurremo incentivi fiscali mirati per il lavoro delle donne, anche al fine di favorire il secondo reddito familiare, e incentivi fiscali per promuovere, sul mercato, un settore di servizi “avanzati” alle famiglie, che sia insieme un settore di occupazione per le donne e un mezzo di conciliazione.
In particolare, pensiamo ad un credito d'imposta rimborsabile per le donne che lavorano, adeguato a sostenere le spese di cura, così da essere incentivante e graduato in rapporto al numero dei figli e al livello di reddito. Tutte le donne lavoratrici, siano dipendenti, autonome o atipiche, con figli e reddito familiare al di sotto di una certa soglia che potrà crescere nel tempo, dovranno poterne beneficiare. Nei primi due anni della legislatura, il credito d’imposta potrà essere applicato alle donne lavoratrici del Sud, per poi essere esteso a tutto il territorio nazionale.
Vareremo inoltre una legge sull’eguaglianza di genere nel mercato del lavoro, come in Spagna, e stabiliremo punteggi più elevati nelle graduatorie per gli appalti alle aziende che rispettano la parità di genere.
E ai livelli più alti, vogliamo che i Consigli d’Amministrazione delle aziende pubbliche siano formati, per metà, da donne.
Per la conciliazione tra lavoro e maternità, proponiamo orari flessibili e “lunghi” negli asili, nelle scuole elementari e negli uffici pubblici che rendono i principali servizi ai cittadini; gli asili dovranno chiudere solo una settimana a Ferragosto; le scuole elementari dovranno organizzare attività estive e restare aperte anche al pomeriggio; gli orari del commercio dovranno essere liberalizzati.
Proponiamo anche un nuovo congedo di paternità interamente retribuito, dalle imprese, come nei paesi scandinavi, addizionale alla maternità/paternità già oggi prevista, e non fruibile dalle donne; congedi parentali al 100 per cento per 12 mesi, come in Francia; incentivi alla flessibilità di orario richiesta dal dipendente.
E se parliamo di dignità femminile, di libertà e responsabilità delle donne italiane, fatemi dire ancora una volta con estrema chiarezza: la legge 194 è una buona legge, è una legge contro il dramma dell’aborto, tanto che ha sottratto le donne dall’incubo della clandestinità e in trent’anni ha quasi dimezzato il numero degli aborti. Discutiamo di come applicarla integralmente, di come valorizzarne gli aspetti di prevenzione. Ma è una legge che va difesa ed è un tema che va tenuto fuori dalla campagna elettorale.
6. Il sesto obiettivo di innovazione è aumentare il numero di case in affitto. In Italia la quota di patrimonio immobiliare in affitto è pari al 19 per cento, contro il 60 in Germania, tra il 40 e il 50 in Austria, Danimarca, Francia, Paesi Bassi e Svezia, il 30 nel Regno Unito.
La scarsa disponibilità di case in affitto blocca la mobilità, specie dei giovani e delle giovani coppie. Il terzo delle famiglie che non possiede abitazioni è esposto al rischio di aumenti dei costi degli affitti e alle difficoltà di poter acquistare una casa senza venderne un'altra.
Tra le misure che proporremo per aumentare l’offerta di case in affitto, un grande progetto di social housing realizzato da fondi immobiliari di tipo etico a controllo pubblico, con ruolo centrale della Cassa Depositi e Prestiti, che può mobilitare risorse per 50 miliardi di euro, senza intervento di spesa pubblica, per la costruzione e gestione di 700 mila unità abitative da mettere sul mercato a canoni compresi fra i 300 e i 500 euro.
E una coraggiosa riforma del regime fiscale degli affitti: tassare il reddito da affitto ad aliquota fissa, ferma restando l’opzione per la condizione di miglior favore; e consentire la detraibilità di una quota fissa dell’affitto pagato fino a 250 euro mensili.
7. Il settimo grande obiettivo programmatico del Partito Democratico è quello di invertire l’attuale trend demografico, aiutando in modo significativo le famiglie con figli, mediante l’istituzione della Dote fiscale per il figlio, proposta dalla Conferenza governativa di Firenze sulla famiglia.
La Dote sostituisce gli attuali Assegni per il nucleo familiare e le detrazioni Irpef per figli a carico, assicura trattamenti significativamente superiori a quelli attuali, si rivolge anche ai lavoratori autonomi.
La Dote parte da un valore pieno di 2.500 euro annui sul primo figlio, aumentando col numero dei figli secondo parametri di equivalenza e riducendosi regolarmente in funzione del reddito familiare, ma in modo da migliorare i trattamenti anche per i redditi medi e medio-alti.
Per le famiglie incapienti con figli, la Dote stessa fa da imposta negativa in quanto viene erogata come trasferimento.
L'asilo nido deve diventare un servizio universale, disponibile per chiunque ne abbia bisogno. Il nostro obiettivo, in collaborazione con le Regioni e gli enti locali, è quello di raddoppiare il numero dei posti entro cinque anni, in modo da assicurare il servizio ad almeno il 20 per cento dei bambini da 0 a 3 anni.
E’ anche con questi strumenti che si sostiene la famiglia, che la si aiuta a svolgere la sua importante funzione sociale.
Dobbiamo fare della nostra una società a misura di bambino, riservando all’infanzia i tempi e gli spazi di cui ha bisogno.
E difendendo i bambini dalle violenze, spesso familiari, e dalle insidie che una società predona mette in atto nei loro confronti.
Lo dico tornando per un momento all’esperienza che ho vissuto negli ultimi sette anni. Come Sindaco ho incontrato migliaia di bambini. Li ho visti felici negli asili, nelle scuole, nei parchi giochi insieme ai loro genitori. Li ho visti non perdere il sorriso e l’allegria negli ospedali. Ho incontrato, ed è questa la cosa più dura, lo sguardo dei bambini che avevano subito un trauma, una violenza, un abuso.
Io su poche cose non ho dubbi come su questa: la pedofilia è per me il più orrendo dei crimini, è equiparabile ad un delitto, perché è la vita di un piccolo innocente che si spezza. Come tale la giustizia lo deve perseguire, con la più assoluta durezza, anche nell’erogazione della pena.
8. Ottavo obiettivo, ottava sfida di innovazione: fare della Scuola, dell’Università, della Ricerca un sistema all’altezza delle sfide della società della conoscenza. Mi limito qui ad anticipare alcune proposte.
Abbiamo bisogno di “campus” scolastici e universitari. Abbiamo bisogno che per i ragazzi i luoghi di formazione non siano come una fabbrica o un ufficio, ma dei centri di vita e di formazione permanente.
Ci sono risorse non solo per riqualificare le strutture esistenti, ma per farne i luoghi più belli e accoglienti del quartiere. Scuole aperte il pomeriggio, con architetture nuove, attrezzature didattiche di qualità, strumenti tecnologici e impianti sportivi.
Cento “campus”, universitari e scolastici, dovranno essere pronti per il 2010. Delle centrali di sapere per le comunità locali. Dei luoghi di formazione e di “internazionalizzazione” per i nostri ragazzi.
Il secondo impegno riguarda la valutazione. Tutti gli studenti delle scuole italiane saranno periodicamente sottoposti a test oggettivi, che serviranno alle famiglie per valutare la qualità dell’apprendimento dei ragazzi e della scuola che frequentano.
Perché è sul talento e sul merito che la società italiana dovrà contare. Perché il talento e il merito, se uniti alla costruzione di un sistema di pari opportunità, sono il miglior propellente della crescita e della coesione sociale.
E fatemi dire, a quarant’anni dal ’68, che chi allora proponeva il “6 politico” produceva un falso egualitarismo che perpetuava le divisioni sociali e di classe esistenti.
Il terzo impegno riguarda gli insegnanti: noi investiremo sulla loro passione e la loro competenza, la vera risorsa di una scuola di qualità, avviando una vera e propria carriera professionale degli insegnanti che valorizzi, anche qui, il merito e l’impegno.
Investire sulla professionalità docente significa ad esempio prevedere per gli insegnanti periodi sabbatici di aggiornamento intensivo, così come avviene per i professori universitari.
Quanto alla ricerca, dobbiamo spingere le imprese a investire più risorse, concentrando solo sugli investimenti in ricerca e sviluppo i contributi a fondo perduto.
9. Il nostro nono grande obiettivo è in realtà una priorità assoluta: la lotta alla precarietà. E in senso più ampio la qualità del lavoro, la sua sicurezza.
Comincio da questa: si tratta di difendere e promuovere standard minimi di civiltà. Ma si tratta anche di far avanzare un’idea alta della competizione e della produttività. Dobbiamo vincere sui mercati internazionali per la qualità delle nostre produzioni, quindi per la forza del nostro lavoro, non perché ci illudiamo di poter competere sui costi, mettendo in pericolo la sicurezza e sacrificando i diritti dei lavoratori.
Ed io sono orgoglioso di potervi annunciare la prima candidatura del Partito Democratico alle prossime elezioni: è quella di Antonio Boccuzzi, operaio della Thyssen, sindacalista, unico sopravvissuto dei sette che quella notte si trovavano sulla linea cinque.
La sicurezza del lavoro, poter lavorare senza morire e senza farsi male, è un diritto fondamentale della persona umana, che non può essere comprato e venduto a nessun prezzo.
Bisogna creare un'unica Agenzia Nazionale per la sicurezza sul lavoro, come luogo di indirizzo e coordinamento per l'attività ispettiva, preventiva e repressiva, anche rafforzando il ruolo della concertazione.
Anche grazie all'attività dell'Agenzia, potrà essere realizzato un sistema di forti premi per le imprese che investono in sicurezza, agendo sul livello della contribuzione;
I lavoratori in nero sono anche i più esposti al rischio infortuni. Vanno quindi premiate le imprese che accolgono l'invito a regolarizzarsi e a rispettare i contratti.
In Italia un numero consistente di lavoratori ha retribuzioni inaccettabilmente basse; si trovano per questo in una situazione di povertà che riguarda soprattutto i lavoratori atipici, giovani, donne, e che si cumula spesso con condizioni di precarietà dell'occupazione.
Noi intendiamo contrastare con decisione questa situazione, con misure diverse e convergenti.
La più importante è la sperimentazione di un compenso minimo legale, concertato tra le parti sociali e il governo, per i collaboratori economicamente dipendenti, con l'obiettivo di raggiungere 1.000 euro mensili.
Troppi giovani sono ora “intrappolati” troppo a lungo, spesso per anni, in rapporti di lavoro precari.
Noi contrasteremo questa situazione, facendo costare di più i lavori atipici e favorendo un percorso graduale verso il lavoro stabile e garantito. Un percorso che preveda un allungamento del periodo di prova e una incentivazione e modulazione del contratto di apprendistato come strumento principale di formazione e di ingresso dei giovani nel lavoro.
In un primo periodo, di lunghezza variabile da definire con le parti secondo le necessità di formazione, i trattamenti e le agevolazioni all’impresa restano quelle attuali; alla fine di questo periodo si procede alla verifica della qualificazione dell’apprendista, con la possibilità di continuare il rapporto, se necessario a completare la formazione, con ulteriori agevolazioni.
Dopo questo ulteriore periodo vanno previsti incentivi all’impresa che trasforma il rapporto in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
10. Il decimo obiettivo di innovazione riguarda uno dei primi diritti, forse il primo, che ogni individuo ha: quello alla sicurezza.
Malgrado l’impegno generoso delle forze dell’ordine, i cittadini si sentono più insicuri: la qualità della vita ne viene gravemente danneggiata. E il danno è più grave per chi è più debole.
Far sentire sicuri i cittadini, aumentando la presenza di agenti per strada e anche utilizzando nuove tecnologie è uno dei principali obiettivi programmatici del Partito Democratico.
E’ questione di entità delle risorse pubbliche dedicate, ma è soprattutto questione di migliore impiego delle risorse umane e finanziarie già disponibili. Se si vogliono più agenti in divisa a presidio del territorio, di giorno e di notte, in centro e in periferia, nelle città e nelle campagne, si impongono misure radicali.
Trasferiremo ai comuni funzioni amministrative e vareremo un piano di mobilità interna alla Pubblica Amministrazione di personale civile oggi sottoutilizzato, per impiegarlo nelle attività amministrative di supporto alle attività di polizia.
Le nuove tecnologie, a cominciare dalle reti senza fili a larga banda (WI-FI, WIMAX) consentono un’infinita possibilità di controllo del territorio. Col loro impiego si possono aiutare i cittadini più esposti alla paura: le donne che escono sole di notte, gli anziani che si muovono nel quartiere, i bambini che vanno a scuola, possono essere protetti dalla rete, attivando un allarme in caso di pericolo.
Le stesse iniziative di video sorveglianza dei privati, che nascono come funghi, potrebbero avere convenienza a diventare un terminale della rete, contribuendo alla sua espansione e ottenendo in cambio preziosi vantaggi.
Stazioni e fermate del trasporto pubblico possono diventare, da luogo insicuro per definizione, l’esatto contrario: le “boe della sicurezza” nel mare metropolitano, consentendo collegamenti agili con le forze dell’ordine.
La sicurezza dipende anche dalla certezza della pena. Troppo frequenti sono i casi di condannati per reati di particolare allarme sociale che vengono ammessi a rilevanti benefici di legge senza avere mai scontato un giorno di carcere.
Il “pacchetto sicurezza” approvato dal Consiglio dei Ministri il 30 ottobre scorso aveva ampliato il numero dei reati particolarmente odiosi, fra questi la rapina, il furto in appartamento, lo scippo, l’incendio boschivo e la violenza sessuale aggravata. E in tutti questi casi prevedeva l’obbligo della custodia cautelare in carcere, il giudizio immediato, l’applicazione d’ufficio della custodia cautelare in carcere già con la sentenza di primo grado e l’immediata esecuzione della sentenza di condanna definitiva senza meccanismi di sospensioni.
Su questa linea noi proseguiremo.
11. Di innovazione ha bisogno un’altra sfera decisiva nella vita di un Paese e di ogni suo cittadino: quella della giustizia, della legalità.
Da troppi anni, in Italia, il confronto e lo scontro sulla giustizia riguardano esclusivamente i rapporti tra la politica e la magistratura.
Su questo tema il Presidente Napolitano ha pronunciato giovedì scorso, davanti al plenum del Csm, parole chiare e dal nostro punto di vista conclusive.
Vorrei tuttavia che, in materia di etica pubblica e di moralità politica, noi fossimo capaci di essere più severi con noi stessi di qualunque legge e qualunque magistrato.
Il Partito Democratico non può disporre per altri partiti. Ma per se stesso, sia attraverso il codice etico, sia attraverso norme statutarie relative ai comportamenti di suoi iscritti eletti nelle istituzioni, il partito stabilisce indicazioni rigorose in particolare sulla qualità delle nomine di cui i suoi rappresentanti dispongono.
Codici di comportamento e regole deontologiche lasciano il tempo che trovano, osserveranno gli scettici. Non è vero: i cittadini sono sensibili all’onestà in politica e, se l’onestà diventa un vantaggio competitivo, anche gli altri partiti seguiranno l’esempio del nostro.
In ogni caso, noi proporremo norme innovative per la trasparenza delle nomine di competenza della politica. Per ognuna di esse, dovranno essere predeterminati e resi pubblici criteri di scelta fondati sulle competenze; attivate procedure di sollecitazione pubblica delle candidature; infine, pubblicato lo stato e gli esiti delle procedure di selezione.
Noi proporremo anche di introdurre nel nostro ordinamento il principio della non candidabilità al Parlamento dei cittadini condannati per reati gravissimi come quelli connessi alla mafia e alla camorra, alle varie forme di criminalità organizzata, o per corruzione o concussione.
Ma la vera emergenza giustizia, quella che l’opinione pubblica avverte come tale, perché ha effetti devastanti sia sulla sicurezza dei cittadini che sullo sviluppo economico del Paese, è quella dei tempi del processo, sia penale che civile, che vedono l’Italia agli ultimi posti in Europa e nel confronto coi Paesi avanzati di tutto il mondo.
Il nostro undicesimo grande obiettivo programmatico è allora ridurre sensibilmente questi tempi, portandoli entro la legislatura a livelli europei.
Noi porteremo a compimento le riforme avviate negli scorsi anni, come la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile e di quello penale. Ma adotteremo anche provvedimenti amministrativi che possono essere presi immediatamente, per accrescere l’efficienza del sistema giudiziario italiano.
Penso ad esempio alla gestione manageriale degli Uffici giudiziari, anche prevedendo la figure del manager dell'Ufficio Giudiziario, un magistrato appositamente formato per l'assolvimento di questo compito. Penso alla realizzazione del processo telematico, per eliminare gli infiniti iter cartacei. O ancora alla modifica dei contratti tra avvocati e clienti, attualmente basati sulla durata del processo, verso forme basate su premi alla rapidità.
C’è poi il nodo delle intercettazioni telefoniche, informatiche e telematiche. E’ uno strumento essenziale al fine di contrastare la criminalità organizzata e assicurare alla giustizia chi compie i delitti di maggiore allarme sociale, quali la pedofilia e la corruzione. Si tratta di conciliare queste finalità con i diritti fondamentali, come quello all’informazione e quelli alla riservatezza e alla tutela della persona.
In parole semplici: ai magistrati deve essere garantita la massima libertà, ai cittadini la massima tutela.
Il divieto assoluto di pubblicazione di tutta la documentazione relativa alle intercettazioni e delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misura cautelare fino al termine dell’udienza preliminare, e delle indagini, serve a tutelare i diritti fondamentali del cittadino e le stesse indagini, che risultano spesso compromesse dalla divulgazione indebita di atti processuali.
E’ necessario individuare nel Pubblico Ministero il responsabile della custodia degli atti, ridurre drasticamente il numero dei centri di ascolto e determinare sanzioni penali e amministrative molto più severe delle attuali, per renderle tali da essere un’efficace deterrenza alla violazione di diritti costituzionalmente tutelati.
12. Dodicesimo obiettivo di innovazione, dodicesima sfida: portare la banda larga in tutta Italia e garantire a tutti gli italiani una TV di qualità.
L’effettiva possibilità di accesso alla rete a banda larga deve diventare un diritto riconosciuto a tutti i cittadini e a tutte le imprese, su tutto il territorio nazionale, esattamente come avviene per il servizio idrico o per l’energia elettrica.
Noi realizzeremo, a partire dalle grandi città, reti senza fili a banda larga per creare un ambiente disponibile alla gestione di nuovi servizi collettivi. Non c’è bisogno di grandi investimenti pubblici: sono tecnologie infinitamente meno costose delle classiche opere pubbliche. Soprattutto, sono sistemi che attivano l’iniziativa dei privati, creano nuove convenienze a cooperare, attraggono investimenti.
Sviluppare un programma nazionale per le info-città è tanto più importante per far entrare l’Italia nell'era della TV digitale con più libertà, più concorrenza, più qualità, più autonomia dalla politica.
Più libertà significa superamento del duopolio, oggi reso possibile dall'aumento di canali garantito dalla TV digitale. Per andare oltre il duopolio occorre correggere gli eccessi di concentrazione delle risorse economiche, accrescendo così il grado di pluralismo e di libertà del sistema.
La libertà di informazione è un cardine della democrazia, come ci ha insegnato un grande giornalista, che resta nel cuore di tutti gli italiani, Enzo Biagi.
Più concorrenza significa ricondurre il regime di assegnazione delle frequenze ai principi della normativa europea e della giurisprudenza della Corte costituzionale.
Più qualità: noi proponiamo di istituire un fondo, finanziato da una aliquota sui ricavi pubblicitari, che finanzi le produzioni di qualità. Dire qualità e dire Italia è la stessa cosa. Vale se pensiamo alla nostra cultura. Se pensiamo a un settore in cui non è possibile che il nostro Paese abbia pero tante posizioni: quello del turismo.
Più autonomia della televisione dalla politica significa, subito, nuove regole per il governo della RAI. La nostra idea è quella di una Fondazione titolare delle azioni, che nomina un amministratore unico del servizio pubblico responsabile della gestione.
Queste sono alcune delle nostre idee per cambiare il Paese. Questo è il cammino di innovazione che attende l’Italia.
Il nostro Paese deve tornare ad avere voglia di futuro. Deve tornare a correre.
Ma per riuscire farlo, per essere “viaggiatori leggeri”, dobbiamo liberarci di un peso. E’ il peso dei veti, dei no, dei conservatorismi e delle paure.
E’ un peso che rende malata la nostra democrazia, che indebolisce la forza delle istituzioni, che aumenta l’impotenza di un sistema frammentato e inadeguato, che riduce al minimo la credibilità di una politica che appare ai cittadini tanto arrogante e invadente, quanto inconcludente quando si tratta di prendere decisioni, quando si deve interpretare il bisogno, che nel Paese c’è, di unità, di coesione attorno a obiettivi di interesse comune.
L’Italia ha bisogno di altro. Gli italiani devono sentire di poter contare su una democrazia che funzioni, su istituzioni forti e autorevoli, su una politica lieve e trasparente, che sappia per prima far vivere i principi della responsabilità e della decisione.
Lo abbiamo sostenuto per mesi. Ci siamo spesi per questo dando vita ad un confronto aperto e dettagliato con tutte le forze politiche. Abbiamo insistito nelle ultime settimane, e nei giorni del generoso tentativo del Presidente Marini.
Ma si è preferito dire di no. Si è voluto portare di corsa il Paese al voto pensando che questa fosse la convenienza. Una grande occasione perduta per dare alla democrazia italiana stabilità e governabilità. Un’occasione perduta per dare prova di quel coraggio della responsabilità che una parte della politica italiana sembra aver perduto. E che il breve respiro non porti lontano appare tanto più chiaro oggi, mentre tra i nostri avversari si sta sgretolando la certezza, inossidabile fino a qualche tempo fa, di una vittoria conquistata a mani basse.
Noi abbiamo introdotto una novità: nel momento in cui lavoravamo per un nuovo bipolarismo, abbiamo unilateralmente abbandonato il paradigma che fondava il vecchio: la demonizzazione dell’avversario.
Abbiamo uno schema che è quello tipico delle grandi democrazie: convergenza per la scrittura delle regole e poi conflitto programmatico e politico per chi deve governare il Paese. Ma il conflitto, appunto, è “per” e non “contro”.
Questa novità di linguaggio, che abbiamo scelto da soli da molti mesi, inevitabilmente condiziona in modo positivo tutto il confronto politico, che fin qui si è svolto con toni nuovi.
Sono i toni sollecitati dal Presidente Napoletano, e sono anche i toni che gli italiani, stanchi delle risse più finte che vere, preferiscono.
Anche per questo sarebbe stato giusto cambiare un’insulsa legge elettorale.
Chi l’ha scritta l’ha definita come sappiamo. Chi l’ha votata, o ha promosso un referendum per abrogarla o ha convenuto sulla necessità di cambiarla, e fino ad un certo punto ha lavorato per questo.
Ora si dice che questa legge può funzionare benissimo e garantire perfettamente la governabilità del Paese. Non è così. E lo sa bene anche chi lo afferma.
Quello della riforma della legge elettorale resterà un problema aperto dall’inizio della prossima legislatura. E a chi non vorrà vederlo sarà comunque il referendum, dopo non molti mesi, a ricordarlo.
Ma ripeto: è il senso di responsabilità che deve far comprendere a tutti che l’Italia ha bisogno di una democrazia che funzioni, di una democrazia che sappia decidere. E anche in modo coraggioso, con una velocità pari a quella del Paese.
Una legge per essere approvata deve passare una o due volte in due rami del Parlamento. Non c’è bisogno. Sia una sola Camera ad avere la funzione legislativa.
Il primo ministro non può, come avviene altrove, proporre nomina e revoca dei ministri al Presidente della Repubblica. Non può varare una legge finanziaria senza che questa subisca lo stillicidio degli emendamenti, che vuol dire tempo e altre decisioni perse, quando tutto il confronto giusto e necessario, come avviene altrove, potrebbe svolgersi approfonditamente prima, nelle Commissioni. Più forza alla figura del premier non vuol dire altro che una democrazia che funziona meglio.
Abbiamo, un vero record tra le grandi democrazie, mille tra deputati e senatori. Troppi. Ogni proposta di legge può essere scritta, e ogni decisione può essere presa, da un numero drasticamente ridotto di parlamentari. Cominciamo anche così ad abbattere i costi della politica.
E a proposito della sua credibilità, di come è stata minata in questi anni dai passaggi di questo o quel parlamentare da una parte all’altra e a volte all’altra ancora, non ho trovato nessuno che non abbia convenuto, in questi mesi, sulla necessità e sulla possibilità di riformare i regolamenti parlamentari in modo da escludere la costituzione di gruppi che non corrispondano alle liste presentate alle elezioni.
Bene, proprio perché tutti si son detti d’accordo, rinnovo la proposta: si approvi subito, in questo Parlamento, nelle prossime settimane, la riforma dei regolamenti.
E ancora, se vogliamo che la politica davvero, sempre più, sia partecipazione e responsabilità, in questo caso delle persone, facciamolo: diritto di voto alle amministrative ai cittadini immigrati e a tutti i ragazzi di sedici anni.
Questa è la società che vogliamo. Una società aperta, fondata sulla libertà e la responsabilità. Una società che considera le differenze una ricchezza, rispetta le scelte di ognuno e si oppone a qualunque forma di discriminazione e di intolleranza e ai fenomeni di risorgente omofobia. Una società capace di riconoscere i diritti delle persone che si amano e convivono.
L’ho detto domenica a Spello, voglio ripeterlo qui: non è l’Italia, a doversi rialzare, non sono gli italiani, che sono bene in piedi, che lavorano, studiano, creano, sperano e vogliono partecipare, contare, decidere. E’ la politica che deve risollevarsi.
E comunque comincerà ad apparire chiaro a tutti: noi non aspettiamo i ritardi degli altri e non ci facciamo bloccare dai veti, dai rifiuti, dai calcoli interessati o dalle timidezze, dalla paura della novità.
Il Partito Democratico è nato dalla generosità e dall’entusiasmo con cui milioni di persone si sono lasciati alle spalle grandi storie o si sono gettati per la prima volta nella loro vita in una sfida affascinante. E’ nato dal coraggio disinteressato di chi ha messo in discussione il proprio ruolo, le proprie responsabilità, se volete le proprie comodità.
Vale a dire: il cambiamento, il gusto del nuovo, è nel nostro stesso atto di nascita. Ed è nel nostro modo di essere e di interpretare la politica.
Per questo non abbiamo avuto paura di rompere il vecchio schema politico.
Probabilmente chi ha guardato a noi con gli occhi di una volta avrà pensato fosse solo tattica, fossero solo parole.
Se è così, ha avuto non solo il tempo per ricredersi, ma anche per maturare il convincimento che la nostra scelta di presentarci agli italiani, da soli con le nostre idee e le nostre proposte, finalmente liberi, segna la fine di un’epoca e obbliga tutti al cambiamento.
E’ stato sufficiente aver avuto il coraggio per farlo, ed è come se una voce si fosse alzata a dire che “il re è nudo”.
Improvvisamente tutti hanno visto quel che era evidente: siamo andati avanti per quindici anni con alleanze tanto grandi quanto eterogenee, fittizie, pensate solo per battere l’avversario, anzi per distruggere il nemico. Poi, puntualmente, esecutivi che non potevano realizzare programmi e governare. E altrettanto puntualmente puniti dagli elettori la volta dopo, visto che nessun governo, in questa lunga stagione di bipolarismo abbozzato, è stato confermato per due volte di seguito.
Non lo si è voluto fare insieme? Noi abbiamo cominciato unilateralmente a cambiare la politica italiana.
E’ questo che sta facendo il Partito democratico. E’ questo che sta accadendo dopo che noi abbiamo deciso: basta mediare, basta attenuare, basta ritardare o rinunciare.
Oggi siamo finalmente liberi di dire agli italiani quello che pensiamo e vogliamo. E se guadagneremo la loro fiducia saremo finalmente liberi di governare. Liberi di imprimere al Paese la svolta riformista che serve.
Diciamo la verità, l’altro effetto della nostra scelta è stato quello di far capire agli italiani che si trovano davanti ad una alternativa secca.
Quando il principale esponente dello schieramento nostro avversario si è presentato ai telespettatori seduto sulla stessa scrivania di sette anni fa, agli italiani è sembrato di assistere alla replica dello stesso film. Immagini già viste. Parole già sentite.
Noi segniamo un elemento di discontinuità.
Quando lo stesso esponente dello stesso schieramento si candida per la quinta volta alla guida del Paese, cosa che non è mai successa in nessuna grande democrazia, agli italiani è sembrato di tornare indietro, ad una lunga storia già vissuta e troppo lunga. Quindici anni. Metà con governi di centrosinistra. Metà con governi di centrodestra. E problemi di ieri che sono diventati quelli di oggi.
Noi segniamo un elemento di discontinuità.
La radicalità della nostra scelta ha prodotto e sta producendo effetti di autentico terremoto della vita politica italiana. E’ quanto pensavamo sarebbe successo. E’ quanto è giusto accada.
Noi abbiamo scelto di chiudere l’esperienza nazionale di coalizioni la cui eterogeneità programmatica è ogni giorno confermata dalle dichiarazioni, che rispetto, degli amici della sinistra Arcobaleno, ai quali voglio rivolgere un augurio di buona fortuna per la loro scelta di autonomia.
Noi con questa scelta abbiamo definito con chiarezza il nostro campo e il campo del governo che ci sarà. E’ il campo del centrosinistra riformista. Chi voterà per noi avrà la certezza che il riformismo, libero da condizionamenti e veti, diventerà governo del Paese.
Ma il vero terremoto è ora nel centrodestra.
Precipitati verso le elezioni con la bottiglia di champagne in mano, ora per effetto della nostra iniziativa vedono squadernate le loro divisioni e le loro lacerazioni. Impossibilitati a fare quello che avevano pensato, e cioè una coalizione di 18 partiti che dopo la nostra scelta sarebbe apparsa “marziana”, sono stati costretti da un lato a improvvisare un cartello che non si capisce se sia un partito o una lista elettorale, e dall’altro a scaricare alleati.
Ma al contrario di quanto abbiamo fatto noi, che abbiamo concluso la nostra esperienza con la sinistra radicale, Forza Italia ha ritenuto di dover concludere la sua esperienza con le forze moderate di centro, alleandosi con AN e con il movimento di estrema destra guidato dalla signora Mussolini.
Così il panorama politico italiano è cambiato. E’ obiettivamente, nessuno lo può negare, uno spostamento a destra.
E tutto questo avviene con l’anomalia della ripetizione di quel film già visto, di quei protagonisti già sperimentati.
L’alternativa oggi è netta: da una parte la ripetizione di un passato conosciuto, dall’altra l’investimento sul futuro.
Fu la scelta fatta dagli americani quando uscirono dal reaganismo scegliendo Bill Clinton. Fu la scelta degli inglesi quando, uscendo dal lungo periodo del thatcherismo, diedero fiducia a Tony Blair. Ora ci siamo. Domani, da Pescara, inizierà il nostro viaggio. Dodicimila chilometri in pullman per toccare tutte le 110 province italiane. Due mesi per ascoltare, per dialogare, per proporre, per costruire insieme un’Italia nuova.
Accanto a noi ci sarà Antonio Di Pietro, ci sarà l’Italia dei valori, la forza politica che ha accettato di condividere il programma, di entrare a far parte dello stesso gruppo parlamentare all’indomani delle elezioni, di intraprendere un percorso che ci farà ritrovare insieme nel Partito Democratico.
E oggi, da qui, voglio rinnovare ancora una volta l’invito a Emma Bonino e al suo partito ad essere con noi per continuare la bellissima esperienza che Emma ha fatto come ministro capace e autorevole.
Mi rivolgo non solo ad Emma, alla quale mi lega una stima e un’amicizia profonda, ma al patrimonio di pensiero e di battaglie che i radicali hanno compiuto spesso in solitudine. So, ed è stato ribadito ancora oggi, che quel partito e quella storia non intendono sciogliersi. E per questo ribadisco che la soluzione migliore è che le liste del Partito Democratico si aprano ad Emma e ai dirigenti radicali. Così riusciremo a far convivere l’identità radicale e la presenza nelle istituzioni della Repubblica.
Più difficile appare capire per quale ragione il nuovo Partito socialista, che in questi anni si è presentato sotto quasi tutte le sigle possibili e immaginabili, con quasi tutti gli alleati possibili e immaginabili, rinunciando quasi sempre al proprio simbolo, solo in questa circostanza, quando è possibile partecipare alla grande occasione della costruzione di un soggetto riformista, voglia invece sottrarsi a questa prospettiva e rischiare di disperdere un valore della vita politica italiana, la cui identità noi rispettiamo.
Ci auguriamo che il nostro invito, che è stato il contrario di un invito allo scioglimento, possa essere accolto.
E comunque, fatemi dire che nei prossimi giorni annunceremo la decisione di tanti protagonisti della vita economica, sociale, istituzionale e civile del Paese, di partecipare con noi alla sfida del cambiamento.
Considero queste tante e autorevoli disponibilità come un segno del vento nuovo che comincia a spirare.
Le candidature dovranno esprimere la ricchezza dell’esperienza sociale, culturale, civile e del pluralismo del Partito Democratico.
Ma c’è un segno di novità che più di ogni altro va dato. L’impegno che assumo oggi è quello di raddoppiare il numero delle donne del Partito Democratico in Parlamento. E come ho fatto per gli organismi dirigenti, state certe e state certi che terrò fede a questo impegno.
Per quanto riguarda me, ho preso una decisione: non sarò capolista in nessuna circoscrizione e sarò candidato come numero 2 in tre di esse. In due sarò in lista dietro ad una ragazza e ad un ragazzo di talento, giovani italiani con meno di trent’anni. In una grande circoscrizione del Nord, mi farà piacere di avere davanti a me nella lista un giovane protagonista di quella nuova stagione dell’imprenditoria che considero una risorsa per l’Italia. sarà capolista per il Partito Democratico Matteo Colaninno, fino a questa mattina presidente nazionale dei giovani imprenditori italiani.
Voglio dire ancora una cosa. Voglio ringraziare chi ha deciso, con un gesto che non ha tanti paragoni, di favorire l’innovazione delle liste. Mi riferisco in primo luogo al nostro Presidente del Consiglio, all’italiano che ha guidato il Paese verso l’Euro, all’italiano che ha guidato l’Europa nel tempo del suo consolidamento e della sua estensione, all’italiano che in una situazione politicamente difficile è riuscito a risanare i conti dello Stato e a far rispettare l’Italia nel mondo: Romano Prodi.
Un altro ex-presidente del Consiglio ha deciso di non candidarsi. Giuliano Amato dà ancora una volta una dimostrazione al tempo stesso del suo disinteresse personale e del suo sostegno alla sfida della costruzione di quel grande soggetto riformista che è stato il sogno della sua vita politica.
Dopo aver rivolto a loro i miei ringraziamenti, voglio ringraziare due di noi che stanno per ingaggiare battaglie diverse ed ugualmente affascinanti.
Grazie ad Anna Finocchiaro, per il coraggio con cui ha deciso di essere in prima fila, in prima persona, impegnata a rinnovare la Sicilia e a farne una terra di legalità e di sviluppo. Sono con te, ne sono certo, i protagonisti della Sicilia migliore, come i giovani che combattono il pizzo, gli imprenditori che denunciano il racket, persone come Rita Borsellino, che incarnano la Sicilia dell’onestà e dell’impegno civile. Sappi Anna che tutti noi siamo al tuo fianco, ed io che ho tanto insistito con te, ti voglio dire il mio e il nostro grazie.
Spero che nelle prossime ore sciolga la sua riserva Francesco Rutelli, che è la candidatura più autorevole per guidare questa meravigliosa città. E lo dico qui, in questa nuova Fiera, simbolo della Roma che è diventata motore e non zavorra dell’economia italiana. In questo luogo, che fu progettato dalla sua amministrazione, che è stato realizzato dalla mia e che è solo uno dei tanti simboli della nuova Roma.
A Spello, pochi giorni fa, abbiamo voluto dire a quale Italia pensiamo, quale Italia vogliamo. Anche questa è una novità.
Contano i programmi, contano le proposte concrete, contano i modi con cui realizzarle. Oggi abbiamo cominciato a rendere chiaro tutto questo. E insieme conta trasmettere il senso di ciò in cui si crede, i valori dai quali ci si fa guidare, la direzione di marcia che si vuole imprimere ad una comunità.
Io credo che questo gli italiani lo capiscano, e lo apprezzino.
Ho ricevuto tantissime lettere, e tantissime e-mail, in questi giorni.
Vorrei leggervene tre, scritte da persone con diverse idee e diverso atteggiamento, almeno fino a ieri.
La prima è di Eleonora, ha scritto lunedì, il giorno dopo Spello. “Ho trentatre anni”, dice, “e avevo deciso di non votare più per nessun politico, era delusa da tutto e da tutti. Grazie per avermi emozionato, per aver capito che bisogna cambiare e fare qualcosa per migliorare l’Italia. Spero tu abbia il coraggio di candidare persone semplici e oneste, del popolo, dell’Italia che oggi soffre ma va avanti. Basta pensare solo a vincere, e al valore del potere e del denaro”.
La seconda e-mail è di Massimiliano, non dice quanti anni ha, però si capisce che ha percorso una strada comune a una parte di noi, ma che non era sicuro di volerne fare ancora. “Qualche mese fa”, dice Massimiliano, “non ero sicuro che la scelta di creare il Partito democratico fosse la cosa più giusta da fare. Alla luce dei fatti devo dire che la scelta è stata lungimirante e voglio esprimere il più pieno appoggio alla volontà di presentarsi da soli alle elezioni. Chiarezza e rispetto degli impegni, e forza di prendere decisioni, sono l’unica strada per portare l’Italia verso un futuro migliore. E i nostri litigiosi “cugini” forse capiranno che litigare ogni giorno per una delle 10 mila cose su cui è necessario prendere una decisione serve solo a consegnare il Paese in mano alla destra”.
La terza lettera è del signor Francesco. E’ un po’ più formale, mi dà del lei, ma arriva dritto al cuore delle cose: “Sono un cittadino nato nel 1945”, dice, “e da quando voto (ho annullato le schede alle ultime elezioni) ho sempre votato a destra. Credo che per cambiare le cose sia necessario avere la forza, come lei sembra intenzionato a fare, di rompere con i vecchi schemi. Con il mio voto la delegherò a rappresentarmi, augurandomi di aver fatto la cosa giusta per me, per i miei figli e per quel Paese che spero possa finalmente diventare l’Italia”.
Ho citato queste lettere per ripetere qualcosa in cui credo.
L’Italia non è un Paese diviso da una cortina di ferro. Gli italiani cercano la soluzione più giusta. Quella che sentono corrispondere meglio al bisogno diffuso nel Paese.
Oggi, mi pare, tutti gli italiani vogliono meno frammentazione, meno rissosità, meno instabilità, meno passato.
L’Italia ha voglia, come altri grandi paesi europei, di tornare a correre e a sperare.
A Spello ho fatto riferimento allo sguardo fiducioso dell’Italia che rinasceva dalle macerie della guerra voluta dal fascismo. E’ l’Italia di quei meravigliosi nostri padri e nonni, che hanno faticato, hanno sofferto, ma hanno saputo produrre, intraprendere, studiare, creare.
E’ l’Italia viva, che ci ha fatto grandi.E’ l’Italia viva, che deve prendere il posto dell’Italia stanca di questi quindici anni.
A tutti voi voglio dire di avere fiducia, di lavorare con serenità, e persino con allegria.Abbiamo bisogno solamente di rassicurare gli italiani.
Una nuova stagione è cominciata. Un nuovo tempo si affaccia. Una nuova Italia si può fare.
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